Don Paolo Tablino avrà un monumento 

Il missionario albese è vissuto per mezzo secolo nel Nord Kenya

Don Tablino seppe ascoltare l’Africa prima di annunciare

APOSTOLO DELL’AFRICA Già in passato, Gazzetta ha ben evidenziato la figura di don Paolo Tablino, con particolare riferimento agli anni del suo apostolato in diocesi: 1950-1959. Con questo nuovo contributo vorremmo entrare in merito alla scelta missionaria di padre Tablino e il suo conseguente impegno pastorale, protrattosi per mezzo secolo, nell’assolato deserto del Nord Kenya (1959-2009).

Tutto ha inizio nella Pasqua 1957. Pio XII pubblica l’enciclica missionaria Fidei donum, nella quale chiedeva ai vescovi italiani di sostenere gli Ordini missionari, inviando, almeno per qualche anno, i sacerdoti diocesani in terra di missione. Nel 1958 don Bartolomeo Venturino, chiese e ottenne, dal vescovo di Alba, monsignor Stoppa, di partire per il Kenya. L’anno seguente lo seguì don Tablino.

Gli inizi non furono facili. Per alcuni anni, i due sacerdoti, insegnarono nel Seminario vescovile di Nyeri, ma cercarono subito orizzonti pastorali più ampi. In qual periodo gran parte del Nord Kenya, abitato da pastori nomadi, era privo di missioni cattoliche. Cercarono di raggiungere Marsabit la sera del 2 dicembre 1963, per celebrare la festa di san Francesco Saverio, patrono delle missioni.

Non avevano calcolato il fattore clima: straordinarie e abbondanti piogge rendevano impossibili le difficili piste del deserto. Torrenti asciutti ingrossavano velocemente. Durante l’attraversamento del Merrille, la Land Rover sprofondò nell’acqua impetuosa, il giorno seguente un altro torrente, il Milgri, bloccò i due missionari. Furono ospitati per alcuni giorni presso la missione cattolica di Laisamis nel Nord Kenya. Ogni tanto controllavano se il torrente sopraccitato era transitabile. Alla fine presero una decisione: don Venturino ritornò a Nyeri con la Land Rover, don Tablino avrebbe raggiunto, a piedi Marsabit. Ambedue le cose furono difficili. Don Tablino attraversò l’impetuoso torrente con l’aiuto di quattro giovani Rendille. Formavano una catena umana, ma l’acqua corrente era oltre la vita.

Arrivato sull’altra sponda due anziani Rendille dissero subito: «Bwana yesù kristu alisaidia wewe sana». Traduzione: «Il Signore ti ha tirato su per i capelli». Don Tablino capelli ne ha avuti sempre pochi, ma con questo splendido augurio iniziò la sua permanenza nel deserto africano. Celebrata la Messa sotto un albero, raggiunse un piccolo villaggio africano nelle vicinanze e, grazie a un provvidenziale camion di passaggio, poté arrivare a Marsabit nella notte del 10 dicembre 1963.

Il giorno seguente, misurò a passi il terreno ove sarebbero iniziati i lavori per la costruzione della nuova missione cattolica di Marsabit. In quell’anno, sul tetto della casa del Dc (autorità locale, ndr) sventolava ancora la bandiera inglese, ma in tutto il Paese la parola d’ordine era soltanto una: uhuru, ovvero libertà.

Quale l’eredità di padre Tablino nel deserto di Marsabit? Un colloquio, avvenuto a Marsabit, il giorno dopo il funerale fa riflettere: lo raccontò padre Cellana dei Missionari della Consolata: «I responsabili della comunità musulmana di Marsabit vanno da don Agostino Zanotto, Comboniano e parroco di Marsabit. Chiedono: “Padre, perché il funerale di don Tablino è stato celebrato al venerdì? Per noi, musulmani, è un giorno sacro, di preghiera! Avremmo voluto partecipare anche noi alle sue esequie”».

Un altro fatto che fa riflettere riguarda le lotte tribali. La grande piaga irrisolta del- l’Africa post coloniale. Nel Nord Kenya spesso corre il sangue tra le tribù Gabbra e Rendille. Ma il giorno del funerale del missionario di tutti è tregua totale. Cadono le barriere religiose e gli steccati ideologici, si dimenticano, magari solo per pochi giorni, antichi odi tribali. Nel ricordo del vecchio missionario defunto e della sua testimonianza, gli uomini di buona volontà trovano subito un’intesa.

Il Comitato promotore

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