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Festival di Venezia: l’atteso Lubo racconta una discriminazione di Stato

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Approda a VENEZIA l’atteso film in concorso di Giorgio Diritti Lubo, che racconta una vera discriminazione di Stato contro i nomadi di etnia Jenisch, quando la Svizzera mette in atto un programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada sottraendoli ai propri genitori e rimasto in vigore dagli anni Venti agli anni Settanta. Un film che sottolinea l’ipocrisia di uno Stato contro una minoranza etnica.

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C’è il personaggio di una donna tedesca in cui qualcuno si può riconoscere: non è una persona cattiva, crede davvero di migliorare il mondo senza accorgersi di basarsi su ideali in realtà disumani. Questa ideologia distrugge l’amore di un padre per i suoi figli e il senso di appartenenza a una cultura che non mina in alcun modo lo sviluppo di una cultura diversa con cui coesiste. Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca.

Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui.

«La lettura del romanzo Il seminatore di Mario Cavatore», dice il regista in un’intervista, «mi ha svelato vicende poco conosciute accadute in Svizzera per cinquanta anni, portandomi a riflettere sul senso di giustizia, sulle istituzioni, sul senso dell’educare e dell’amare. Ne è nato il film Lubo, da cui nello svolgersi degli eventi emerge quanto principi folli e leggi discriminatorie generino un male che si espande come una macchia d’olio nel tempo, penetrando nelle vite degli uomini, modificandone i percorsi, i valori, generando dolore, rabbia, violenza, ambiguità, ma anche un amore per la vita e per i propri figli che vuole sopravvivere a tutto e riportare giustizia».

Guardando il film pensiamo alla Seconda guerra mondiale, ma il pericolo della discriminazione di Stato è una questione di estrema attualità anche oggi in diverse parti del mondo. Una pellicola che si propone l’ambizione di provare a cambiare le teste e i cuori degli spettatori. D’altronde al centro dei film di Giorgio Diritti sta il rapporto difficile e controverso tra comunità e diverso, dove la diversità è soprattutto di tipo relazionale, in cui si gioca un inceppamento del linguaggio, o un suo utilizzo conservativo, per difendere una immaginaria purezza lontana nel tempo.

 

Storie di giovani ribelli, inquieti e alla ricerca del limite vengono portate al Lido dalla regista belga Fien Troch col film in concorso Holly, un’adolescente dai singolari poteri premonitori e benefici. La quindicenne Holly chiama la scuola dicendo che quel giorno resterà a casa. Poco dopo nell’istituto scoppia un incendio in cui muoiono diversi studenti. L’intera comunità, colpita dalla tragedia, si riunisce per cercare consolazione.

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Anna, una delle docenti, è affascinata dalla strana premonizione di Holly e la invita a far parte del suo gruppo di volontari. La sola presenza di Holly trasmette tranquillità, calore e speranza. Presto però tutti vogliono incontrarla e sentire l’energia catartica che emana da lei, chiedendo alla ragazza sempre di più. Holly è ambientato in una comunità che ha appena subito un forte trauma. In questo contesto la comunità proietta inconsciamente sul personaggio di Holly i propri bisogni e le proprie convinzioni, creando una dinamica di gruppo fondamentale in questo processo.

«Volevo dare vita a un’esperienza filmica schizofrenica combinando il dolore con la pazzia dei personaggi e delle situazioni, che si manifesta attraverso il ritmo della narrazione», spiega la regista. Il film inizia lento per svilupparsi in un crescendo che culmina nel caos assoluto; per certi versi è molto concreto, ma ci sono momenti in cui emergono degli elementi mistici cominciando a far dubitare del dono speciale di Holly.

La regista kossovara Luàna Bajrami porta a Venezia per la sezione Orizzonti Bota jonë, una storia ambientata nel Kosovo del 2007. Zoé e Volta lasciano il loro sperduto villaggio per frequentare l’Università di Pristina. Tra tensioni sociali e politiche, le due donne scoprono un Paese in fermento, alla ricerca della propria identità alla vigilia dell’indipendenza, la cui gioventù è stata dimenticata. Nel 2007, otto anni dopo la guerra, il Kosovo vive ancora sotto il protettorato delle Nazioni Unite, in attesa dell’indipendenza.

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La gioventù di questo Paese nascente è combattuta tra cultura e status, tradizione e globalizzazione, dolore e resilienza. Un’eco deliberata del viaggio delle due eroine, Zoé e Volta. Fuggono dal loro villaggio sognando un futuro migliore, alla ricerca del loro posto in questa società, in cui le ambizioni si scontrano con la realtà. «Questo film in forma di cronaca racconta qualcosa della gioventù kosovara, ma in realtà riguarda molto di più la gioventù di tutto il mondo. Le domande che pone sono universali. Ognuno di noi sogna, ma più passa il tempo, più i sogni si affievoliscono, e con essi la speranza», dichiara Bajrami.

Anche la tematica della transessualità sbarca al Lido con il film in concorso Kobieta zdei registi Małgorzata Szumowska e Michał Englert. Sullo sfondo della trasformazione della Polonia nel passaggio dal comunismo al capitalismo, Kobieta z attraversa quarantacinque anni della vita di Aniela Wesoły, che nel suo faticoso percorso verso la libertà ha vissuto come uomo per quasi metà della sua vita in una cittadina di provincia, raccontando il suo percorso alla ricerca della libertà come donna trans. La protagonista affronta difficoltà in famiglia e situazioni complicate nell’ambiente dove vive.

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Quali scelte dovrà fare Aniela per diventare chi è veramente? «Kobieta z è un film davvero importante per noi, frutto di tanti anni di lavoro e infiniti incontri con persone transgender, persone di tutte le età che vivono in Polonia da molti anni, e che gentilmente si sono fidate di noi e hanno condiviso le loro storie», dichiarano i registi. Per questo nel film, appaiono varie persone transgender, che recitano in ruoli trans e cis, mentre molti appartenenti alla comunità Lgbtq+ hanno fatto parte del team di produzione.

La volontà dei registi è quella di fare della protagonista Aniela un simbolo, una metafora della transizione della Polonia, riflesso di una società che in passato si era unita per far crollare il regime comunista. Quella stessa società oggi favorisce la polarizzazione delle opinioni, ed è riluttante ad accettare convinzioni che in altre parti del mondo sono ormai da tempo diventate norme sociali. «In un momento in cui lo spazio del cinema viene sempre più occupato dai social media, abbiamo sentito il bisogno di raccontare la straordinaria storia di Aniela, ponendo domande e inserendo gli elementi classici del genere cinematografico cui il film appartiene. Speriamo che il film aiuti a comprendere cosa significhi essere trans, e accresca il sostegno a leggi che garantiscano una vita sicura», concludono nell’intervista i registi.

Il film non vuole giudicare nessuna delle posizioni presentate; il suo elemento più significativo è l’umanità che traspare dalla commovente storia dei protagonisti, seguiti con rispetto dall’uso sapiente dalla macchina da presa.

Walter Colombo, inviato a Venezia

 

 

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