VENEZIA Dove potrebbe portarci l’amore fuori dalle strutture della coppia tradizionale, che plasmano anche le politiche rendendo spesso difficile immaginare modi di vivere alternativi? Di questo si è parlato molto all’81ª Mostra del cinema di Venezia, dal poliamore di Coppia aperta quasi spalancata, alla complicità Bdsm di Babygirl. Però mai nessuno lo aveva fatto con quella delicatezza e rispetto con cui il regista norvegese Dag Johan Haugerud ci presenta il tema della sessualità, desiderio e trasgressione nella società nordica, col suo film in concorso Kjaerlighet (Love).
Attraverso la forza dei dialoghi e delle immagini, il regista presenta una pellicola dove poesia e romanticismo fanno sembrare i temi trattati quasi utopici, esplorando la vicinanza emotiva più libera che si possa immaginare.
Un film che è parte di una trilogia pensata dal regista per «ispirare nuovi modi di pensare la vita reale, soprattutto riguardo alla sessualità femminile, che sembra costantemente sottoposta a esame e messa in discussione, è un punto focale del film: le donne non possono ancora scegliere riguardo alla loro sessualità e alla loro vita amorosa senza dover difendersi o dare spiegazioni».
Marianne (interpretata da Andrea Braein Hovig, nota attrice teatrale e cantante norvegese), una dottoressa pragmatica, e Tor (interpretato da Tayo Cittadella Jacobsen), un infermiere compassionevole, stanno entrambi evitando le relazioni convenzionali. Una sera, dopo un appuntamento al buio, Marianne incontra Tor sul traghetto. Tor, che spesso passa lì la notte in cerca di incontri fortuiti con altri uomini, le racconta di esperienze di intimità spontanea e di importanti conversazioni.
Incuriosita da questa prospettiva, Marianne inizia a mettere in discussione le norme sociali e si chiede se tale intimità casuale possa essere un’opzione anche per lei. Il panorama contemporaneo in cui siamo immersi attraverso i vari media, ci incoraggiano a riconoscere e abbracciare i nostri impulsi e bisogni, però allo stesso tempo «scegliere di vivere la nostra sessualità in modi alternativi appare come una rottura radicale e impegnativa rispetto alle convenzioni e ai valori tradizionali», dichiara il regista.
Un padre e una figlia. Il cinema e la vita. Al Lido arriva fuori concorso Il tempo che ci vuole, il film più personale e toccante di Francesca Comencini, che indaga il legame con suo padre, il grande regista Luigi Comencini (Marcellino pane e vino, Un ragazzo di Calabria, Incompreso, Le avventure di Pinocchio).
Affidandosi alle interpretazioni intense di Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, Comencini ricostruisce alcune tappe cruciali della sua vita, un’infanzia da favola macchiata, in adolescenza, dalla dipendenza da droghe. Sullo sfondo, le vicende drammatiche degli anni di Piombo in Italia, con tutte le illusioni rivoluzionarie dei giovani e le stragi non ancora chiarite.
Un racconto personale che però trova la giusta distanza nel fatto che tra il padre e la figlia c’è sempre il cinema come passione, scelta di vita, modo di stare al mondo. Il cinema come una rete che sottende il racconto dei loro scambi, crea lo spazio dell’immaginazione. «Con il cinema» dice, il padre «si può scappare. Con l’immaginazione».
Le immagini partono dai ricordi e come i ricordi amplificano alcuni segni salienti e ne cancellano altri. Immagini scarne, in cui non c’è quasi niente tranne loro due. Un dialogo sempre affettuoso, ma pieno di confronti e di scontri. La regista racconta la sua crescita, la sua adolescenza e il passaggio all’età adulta attraverso liti rabbiose e sensi di colpa, mentre il padre la osserva e la ama, la lascia libera anche di fallire.
«Dopo tanti anni passati a fare il suo stesso lavoro cercando di essere diversa da lui, ho voluto raccontare quanto ogni cosa che sono la devo a lui: ho voluto rendere omaggio a mio padre, al suo modo di fare cinema, al suo modo di essere, all’importanza che la sua opera e il suo impegno hanno avuto per il nostro cinema, all’importanza che la sua persona ha avuto per me. Forse ora sono abbastanza anziana, ne sono capace, forse ora sarò all’altezza di questo racconto. Forse, ora, è arrivato il momento di dirgli grazie», commenta commossa la regista.
Era il 1997 quando la Mostra incoronò con il Leone d’oro il romantico e rivoluzionario maestro giapponese Takeshi Kitano, regista, attore, sceneggiatore, montatore, fumettista, pittore, scrittore e cantante. Kitano è tutto: polar, gangster movie, dramma, commedia, demenziale. Figura pop, anti intellettuale, un uomo che ha raccontato i crimini della yakuza e le sconfitte di chi l’ha combattuta e di chi ne ha fatto parte.
Quest’anno porta a Venezia il suo Broken Rage, film fuori concorso di soli sessantadue minuti, nel quale coniuga gli opposti della sua poetica. In realtà due cortometraggi che raccontano la stessa storia. Perfettamente identici, se per una cosa: la prima metà è un violento film d’azione che si svolge negli oscuri bassifondi della malavita e ruota attorno a un sicario e alla sua lotta per la sopravvivenza quando si ritrova incastrato tra la polizia e la yakuza.
La seconda segue la stessa storia, ma trasformata in commedia, una parodia completa, scena per scena, della prima parte. Un esempio di come la scrittura possa cambiare il senso delle immagini e una dimostrazione dell’assoluto potere che hanno i generi all’interno del linguaggio cinematografico. Un esperimento cinematografico, uno dei tanti a dire il vero nella carriera dell’attore e regista giapponese che ha divertito tantissimo gli spettatori in sala meritandosi un lungo applauso.
«Sono molto onorato di essere stato invitato all’81ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia per l’anteprima mondiale di Broken Rage. È davvero un film che azzarda un nuovo stile. Se piacesse a tutti ne sarei entuasiasta», dichiara il regista.
Walter Colombo, inviato a Venezia