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Quand’eravamo emigranti

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Giovanni Giustetto (foto a destra), 72 anni, una vita passata in fabbrica, una figlia, l’età della pensione sulle colline delle Langhe. Nato a Virle Torinese, Giustetto appartiene a una famiglia langarola di emigranti ed è stato egli stesso un migrante nell’infanzia, nel Sud-Ovest della Francia, a stretto contatto con una folta comunità piemontese che ancor oggi parla e conosce il dialetto della sua terra. Quelli della fanciullezza sono stati anni indimenticabili per Giovanni, il quale, raggiunta l’età della pensione, ha intrapreso un percorso di indagine delle proprie origini, partendo dal paese nel torinese dov’è nato nel 1939, attraverso il libro “Dalla Pianura alla Pampa”, pubblicato nel 1999, e un altro in cantiere sul fenomeno, mai studiato, dell’emigrazione dei piemontesi nel Sud-Ovest della Francia, nel triangolo Bordeaux-Tolosa-Pirenei. Tra le tante raccolte, la storia che Giustetto ha scelto di raccontare a Gazzetta lo riguarda. È la migrazione della sua famiglia, iniziata da Bosia a fine Ottocento.

Nel suo libro, in cui racconta storie di emigranti, lei ha dedicato un capitolo a due piccoli eroi. Ci racconti chi erano, Giovanni. «Fatte le debite proporzioni, penso che mio nonno materno, Luigi Teofilo, e mio nonno Giuseppe Giustetto siano stati due “piccoli eroi dei due mondi”, in cerca di lavoro in Sud America».

Famiglia di Luigi Teofilo

Chi era Luigi Teofilo? «Era il padre di mia mamma Rina, nato nel 1888 e cresciuto a Bosia, nelle Langhe. Primo di sette figli, rimase orfano della madre all’età di 14 anni; allora prese, con mio bisnonno, sulle spalle la famiglia, cercando di offrire un futuro dignitoso ai sei fratelli. Tutti, grandi e piccini, si dedicarono al lavoro neicampi e a portare avanti l’arte del bisnonno, che era cestaio». (Nel tondo la famiglia di nonno Luigi).

Quando suo nonno lasciò le Langhe? «La prima volta partì, con meta finale il Brasile, nel 1912 e la seconda nel 1914. Nella prima occasione s’imbarcò da Genova per raggiungere, dopo 15 giorni di bastimento, Rio de Janeiro. Si vantava di aver navigato a bordo della tristemente famosa Mafalda, affondata, poi, nel 1927 al largo delle coste brasiliane con 300 persone a bordo. Si trattava di un piroscafo di lusso con, però, 1.200 posti di terza classe, dove si dormiva ammassati in brande nascoste nella stiva».

Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale furono caratterizzati da una grande emigrazione verso il Brasile, vero? «Nel 1912 e 1913 a partire alla volta del Paese sudamericano furono 30 mila connazionali ogni anno, nel 1914 addirittura 140 mila, in gran parte piemontesi. Basti dire che negli Stati di Santos ed Espirito Santo oltre il 50% delle proprietà erano in mano a italiani e in particolare a piemontesi».

Suo nonno non trovò la tanto sperata fortuna, che trovarono molti italiani… «Nonno Luigi raccontava di essere arrivato a Rio de Janeiro, dove venivano ammassati gli stranieri e di essere stato successivamente trasportato su zattera in una zona a lui destinata. Il lavoro consisteva nel tagliare canna da zucchero per 10 ore al giorno, la fatica era tanta, in un’area infestata da serpenti e insetti, a una temperatura troppo calda e umida per un uomo nato su un’alta e ventilata collina delle Langhe. Distrutto, tornò a casa dopo pochi mesi. Lo spirito di avventura e la voglia di dare una svolta alla propria vita lo spinsero un’altra volta in Brasile, dove lavorò alla costruzione di una ferrovia a Rio de Janeiro, fino a quando nel 1915 fu chiamato alle armi: iniziava la prima guerra mondiale».

Per lui si trattò della fine di un sogno? «Nel 1916 Luigi si sposò con una vicina di casa, Pierina Pastura, e nel 1917 nacque mia madre. A quel punto iniziò un lungo peregrinare in cerca di lavoro, questa volta non più a migliaia di chilometri da casa, ma attraverso Langhe e Roero. Il nonno finì di stabilirsi negli anni Trenta a Virle Torinese, dove mia madre conobbe Michele Giustetto, detto Chelito. Fu così che si incrociarono e si fusero le storie di emigrazione delle famiglie Teofilo e Giustetto».

Per quale ragione suo padre era soprannominato Chelito? «Chelito è il diminutivo di Miguel. Mio padre era nato in Argentina nel 1912, dove mio nonno Giovanni era emigrato con la famiglia nel 1909, spinto dai racconti del fratello Giuseppe e degli zii Reale, i quali fecero fortuna in Sud America. In quel periodo ben 360 mila piemontesi partirono alla volta dell’Argentina».

Cambiano il Paese e la famiglia protagonista, continua la storia di un popolo in cerca di fortuna nella terra promessa… «Nonno Michele partì. Con la moglie e le tre figlie maggiori, si imbarcò da Genova, direzione Buenos Aires, raggiunta dopo 30 giorni di navigazione in terza classe, a contatto con miseria e malattie. Giunta finalmente nel Rio de la Plata la famiglia fu trasferita nell’”Hotel de los emigrantes”, dove venivano ammassati e messi in quarantena gli stranieri in arrivo in Argentina. Dalla stazione del Ferrocarril, i nostri raggiunsero in treno a Leones, dove ad attenderli trovarono Giuseppe e dai quali mio nonno ebbe in affitto una chacra a Marcos Juarez. Si trattava di un appezzamento di terreno di cinquanta ettari con una casa in muratura. Per la famiglia iniziava una nuova vita fatta di solitudine, con la cascina più vicina a distanza di chilometri».

Che cosa andò storto in questo caso? «Mia nonna si ammalò seriamente, dopo aver dato alla luce nel 1910 zio Domingo e nel 1912 mio padre. Per curarla si decise di tornare al paese natio nell’inverno del 1915».

Manteneste vivo il legame con i parenti d’oltre oceano? «A partire da quegli anni rari furono i contatti, a parte due lettere datate 1923 e 1935, da me ritrovate. Partendo da quelle missive ingiallite, nel 1990 mia madre scrisse, con poche speranze, una lettera diretta al paese di Marcos Juarez, Cordoba, Argentina».

Un tentativo all’apparenza disperato a 75 anni dall’addio all’Argentina. «Destino ha voluto che i Reale non si fossero mai allontanati da quel paesino rurale. Risposero a mia madre e, così, nel 1991 volammo a Buenos Aires. Comitiva al completo: io, mia moglie e la nostra figlia Erica accompagnammo mio padre di 79 anni e mia madre di 75».

Che cosa trovaste in Argentina? «Trovammo nelle figure dei nostri parenti profili di visi noti portati dai geni degli avi e con grande stupore, il dialetto piemontese, che si era tramandatodi padre in figlio e soprattutto di nonno in nipote: questo ci permise di comunicare agevolmente. Commozione e gioia suggellarono quei momenti e si ricreò un legame che portiamoavanti. Mio padre, compiuti 83 anni, volò un’altra volta nell’amata Pampa. Salutò tutti un’ultima volta pochi giorni dopo il ritorno. Se ne andò, così, con un sorriso e sulle labbra le ultime parole d’affetto per l’Argentina».

Marcello Pasquero

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