Riflettori puntati sulla candidatura Unesco del territorio albese. Perché non proporre i muretti a secco posti a sostegno delle nostre vigne? È un grande capolavoro di architettura rurale che rischia di andare perduto. «Li guardi bene, enologo: dieci anni, venti al massimo e di questi muretti non so cosa rimarrà»: così mi diceva un mediatore di Moscato tra Moncucco e San Maurizio, nel Comune di Santo Stefano Belbo. Era il 2007.
I muri a secco fanno parte, a pieno titolo, del paesaggio viticolo delle Langhe, in quanto fondamentali per sostenere i cosiddetti sorì, o vigneti a forte pendenza. Questo termine nella tradizione rurale in genere è riferito a una porzione di terreno con pendenza oltre il 40%. Solo nella zona docg del Moscato sono oltre 1.300 gli ettari di vigneti con questa pendenza, in particolare nelle Valli Belbo e Bormida. Limitandoci alle pendenze superiori al 50% citiamo Santo Stefano Belbo con 74 ettari, Cossano con 41 e Camo con 21.
Osservando i vigneti terrazzati si prova ammirazione per la loro straordinaria bellezza: veri monumenti costruiti con ingegno e fatica per strappare terra a colline scoscese e difficili. Un’interazione perfetta tra uomo e ambiente.
Ma come si svolgeva il lavoro per costruire i muretti a secco? Ascoltiamo alcuni protagonisti di allora. Per prima cosa occorreva trovare le pietre nel terreno, le cosiddette lòse. In bassa Langa sono migliori, ma se ne trovano poche. In alta Langa sono numerose, ma di qualità inferiore. Le lòse si trovavano nella terra, quando si scassava per mettere a dimora la vigna. Chi aveva fortuna trovava la vena di lòse. Allora, con il cuneo da pietra e la mazza si rompeva la vena estraendo le lòse piccole. Per costruire il muretto di pietra inizialmente si preparava il terreno scavando un fosso, sino ad arrivare al tufo marnoso. Sopra, si mettevano le pietre in fila. Era difficile trovare le lòse quadrate, che combaciassero. Per evitare che “ballassero” si inserivano pietre piccole negli spazi; tra il muro e il terreno si mettevano pietrisco e terra. Il muretto non era mai verticale, ma seguiva la pendenza della terra (anche 50 centimetri per un muro alto 4 metri). In cima si mettevano pietre grosse e argilla rossa. Se fatto bene, il muretto è un capolavoro della professionalità umana: lineare, perfetto e, soprattutto, stabile.
Ci sono due varianti nella costruzione dei muretti a secco: gli archi e i crotin. Per gli archi si usava uno scheletro di legno, si sistemavano le pietre sopra e, una volta finito, si toglieva l’armatura. L’arco reggeva in quanto le pietre della curva scaricavano il peso interamente sui pilastri. Per il crotin, invece, si doveva operare prima di costruire il muretto. Si scavava nel tufo e si portava via la terra. Non era facile. Occorreva scavare con il picco prima in alto e poi in basso, per evitare improvvisi e pericolosi crolli. In genere si ricorreva a esperti. Il tufo blu era il migliore, compatto come il cemento. Andando avanti si poteva trovare una sorgente; in altri casi il crotin raccoglieva acqua piovana ed era sempre fresca. I crotin durante l’ultima guerra hanno rappresentato eccellente rifugio per molti viticoltori e qualche partigiano durante i rastrellamenti. Lorenzo Tablino