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Vi racconto il mio breve viaggio con il treno Covid-19

Foto di repertorio

LETTERA AL GIORNALE Tanto tempo fa Lui mi consegnò un biglietto ferroviario con indicata la stazione di partenza, ma senza quella di destinazione e quando ne chiesi il motivo rispose: «Quella la scriverò io più avanti, ora non devi far altro che salire sul treno in partenza, un accelerato che come sai ferma a tutte le stazioni, stai attento…».

E di stazioni effettivamente me ne sono capitate lungo questo strano e sconosciuto viaggio, ma Lui non mi ha mai fatto scendere. La più recente aveva un nome strano, come quelli che la scienza che studia l’universo ha dato, man mano che li scopriva, a esopianeti tipo: Gliese323 o Kepler442, ecc. Questo si chiama Covid-19; dopo una settimana di febbre toccando anche 40°, ci sono finito e vi ho trovato gli alieni….

Non era la febbre a farmeli immaginare, non deliravo, anzi dopo una notte me l’hanno persino fatta passare. Mi trovavo all’ospedale di Verduno, nella “zona di isolamento” preludio al ricovero in reparto contagiati, che poi avvenne.

Fui infatti trasportato al 5° piano in un’ampia e attrezzata camera, dove trovai già un paziente più giovane, cosa che scoprii più avanti perché al momento non riuscivo a distinguerlo con la testa racchiusa in un grande casco trasparente pieno d’aria con suoni e tubi collegati a un monitor.
Nei giorni successivi quando medici e infermiere si prendevano cura di lui venni a conoscere questa tecnica che sopperisce alla carenza di ossigeno limitando e annullando i danni che una ridotta saturazione di ossigeno nel sangue provoca all’organismo.

Gli “alieni”! Vivendo con loro quel periodo – fortunatamente breve – giorno e notte, ho visto e vissuto cose che nessun cronista con interviste anche approfondite può capire e far capire; certi particolari si sanno cogliere solo vivendoli da paziente e dall’interno.

Di tutti vedevo solo gli occhi e – pur senza mai più scordare quella parte del mio viaggio – ciò che mi resterà sempre impresso sono le loro espressioni. Erano tristi, di una tristezza che portava a chi non ce l’aveva fatta.

Ma le mani e gli stessi occhi si rivitalizzavano quando si indirizzavano a quanti erano da salvare con tutte le forze. E io fra questi: la cardiologa insisteva perché a letto assumessi posizioni che mi consentissero migliore respirazione, le infermiere proseguivano le disposizioni e si rallegravano compostamente per i progressi nelle misurazioni dell’oximetro, iniziando a mostrarmi simpatia quando nel trattarmi da vecchio compresero che anziano sì lo sono ma lucido di mente, anche facendole sorridere nel dire che avevo la malattia di Parkinson non l’Alzheimer. E mi dissero di farmi la barba. Ma forse si comportavano così con tutti quelli che l’esperienza diceva loro che sarebbero usciti guariti.

Non ricordo più se fosse il 5° o il 6° giorno, quando la cardiologa mi fece portare all’ottavo piano dicendomi che mi sarei trovato in un ambiente più tranquillo. Ma non stavo mica male lì, con un compagno persino troppo taciturno. Purtroppo fui partecipe di un suo grande dolore: gli telefonarono da casa che era morto il papà e capii in prima persona cosa vuol dire quando il maledetto Covid-19 impedisce anche l’estremo bacio a chi si ama.

Salii – o meglio mi portarono – così all’8°, in una camera anche solo per pochi minuti vuota: questa era prospiciente l’ampio spazio ex sala d’aspetto del reparto già neurologia, ora “requisito” dal Covid-19 e occupata da scrivanie, computer, scaffali, carrelli e alieni; dalla porta della camera sempre aperta potevo osservare quanto avveniva: lì si scambiavano le consegne le infermiere, preparavano le terapie per noi e accorrevano al richiamo dei malati; e lì ce n’erano di richiami.

C’era un andirivieni continuo con qualche fortunato in uscita, ma molte barelle e letti in arrivo. Sicché venne subito occupato il posto accanto al mio: era un anziano ma da quello che potevo intravedere (era tutto sotto le coperte e con una maschera d’ossigeno) neanche tanto. Non parlava e si toglieva spesso la maschera che le infermiere tornavano con pazienza a rimettergli, aveva un respiro affannoso che però verso sera diventava regolare.

Io dormo già poco a casa e in ospedale ancor meno. Quella notte ero sveglio e nel silenzio della camera sentivo il suo respiro sempre più regolare fino a quando, alle 4,30 cessò. Non chiesi niente alle infermiere del turno di notte che lo tenevano in osservazione dalla sala operativa attraverso la porta aperta della nostra stanza. Infatti vennero subito a espletare le necessarie procedure del caso.

Sono stato testimone di una morte, di quelle che il virus ha contribuito a provocare. Il mio pensiero è andato a domande che potevo rivolgere solo a me stesso: aveva famiglia? Avrebbero saputo subito? Avrebbero potuto vederlo per l’ultimo saluto? O viveva da solo come solo è morto?

La mattina dopo arriva lo staff medico che, verificato il mio buon stato di salute, mi annuncia le dimissioni per il pomeriggio. Dopo 10 giorni andavo a casa.

Quindi a questa stazione Covid-19 Lui non mi ha fatto rimanere, il viaggio continuava verso una meta magari immaginabile, ma non ancora conosciuta. Mi aspettavano altre stazioni alle quali non scendere o scendere, come questa dove sono rimasto un po’ per poi risalire, o scendere a conoscere il nome dell’ultima, mentre avrei salutato il treno che se ne sarebbe andato senza di me. (dal 1° al 10 novembre 2020; terminato di scrivere il 18 gennaio 2021).

Beppe Fenile, Roddi

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