La foto di Beppe Fenoglio vestito da partigiano esiste

Il ritratto del giovane Johnny con la giacca del British army
Beppe Fenoglio nel fotogramma che appare nel documentario Una questione privata di Guido Chiesa (1998)

LA FOTOGRAFIA Tra le cose che spesso ritornano, nei discorsi intorno a Beppe Fenoglio (anniversari o meno), è la domanda se sia rimasta, di lui che essenzialmente si riconobbe nella qualifica di «scrittore e partigiano», qualche fotografia scattata nel corso della guerra civile. Lo si è molte volte avidamente cercato, isolato, in gruppo, sullo sfondo, nelle rare e preziose immagini note che riportano a momenti e situazioni riferite nel foglio notizie del partigiano Beppe – Heathcliff. E, una volta arresi, lo si è facilmente immaginato appena più in là del margine della foto, poco prima o poco dopo, insieme ad altri che l’inquadratura e l’istante non avevano fermato; sicuri che un giorno qualche nuovo archivio, qualche cassetto, avrebbe rivelato uno scatto più fortunato.

C’è però un’immagine, non nuova né inedita, che nella memoria degli appassionati fenogliani si è depositata da tempo, sebbene in maniera quasi inconscia. Compare nel bel documentario di Guido Chiesa Una questione privata. Vita di Beppe Fenoglio, trasmesso dalla Rai nel 1998. Oggi, per precisa scelta del regista, il film è visibile sul Web; e la fotografia in questione (che estrapoliamo e riproduciamo nella pagina accanto) passa, in carrellata insieme a molte altre, al minuto 23. Come si vede, non è una foto in esterni: è un ritratto, scattato come si conviene, nella bottega di un fotografo; Fenoglio è giovane, consapevole e verosimilmente, dai riflessi sul capo, imbrillantinato. Ciò che incuriosisce, è il dettaglio di quanto ha indosso: una giacca militare, e in specie, una giacca di fattura inglese. Così appare evidente al redattore di questo stesso giornale, Paolo Rastelli, che ha approfondito aspetti legati ad armi ed equipaggiamenti della guerra; la sua opinione è confortata dal parere, netto, del curatore di un museo di cimeli del conflitto.

Abitare il piemontese: scopriamo il significato di Gigaȓela
Beppe Fenoglio al bar del Savona di Alba ©Aldo Agnelli

Questo particolare non può non suscitare richiami nel lettore di Fenoglio – o almeno in quel lettore che abbia avuto la fortuna di leggere il testo che ci auguriamo, a ogni anniversario tondo, che l’editrice Einaudi voglia restituirci in una nuova edizione, dopo la prima (e unica, e per specialisti) che risale al 1978: il favoleggiato Ur Partigiano Johnny, cioè il lungo spezzone di narrazione scritto in inglese nel quale Johnny, tutt’altro che morto nello scontro di Valdivilla, svolge l’incarico di ufficiale di collegamento con le missioni alleate, tra Langhe, Roero e Monferrato, fino alla Liberazione. In effetti, uno dei temi più forti e insistiti di questo “libro” è proprio il confronto, tra entusiasmo e disincanto, con l’idealizzata civiltà anglosassone, incarnata di volta in volta da figure diverse di soldati. Questa immersione è anche esteriore: oltre alle lunghe sigarette Craven, alle armi, a estemporanee letture, Johnny, scambiato da molti+ per un chief, un capo, sfoggia una english jacket cachi dallo short collar; e quando, a un certo punto, decide di sdraiarsi a dormire ai piedi di un grosso albero, l’ultima cosa che i suoi occhi fissano prima di addormentarsi è il soffio ipnotico, come di brezza, del suo respiro su quel jacket-bavero» che vediamo nella fotografia.

Ma se riconduciamo la fotografia a quella narrazione, non è solo per questioni di sartoria. Nell’Ur Partigiano, si racconta di come Johnny, comandato in ultimo nel Monferrato per propiziare lanci inglesi a favore dei locali partigiani azzurri, all’inizio di aprile del ’45 (l’11 o il 12) si conceda un momento di svago, di leisure, nel vivace paese di Moncalvo, e «da borghese e compiaciuto», assapori insieme al comandante della brigata Tek, una breve, inebriante e ingannevole anticipazione della libertà sentita ormai come imminente. Tra le altre cose, rivede la vetrina di una libreria (!) e segue Tek da un fotografo per un ritratto (uno singolo e uno insieme). «Il fotografo era molto bravo; era uno sfollato da Torino, un uomo lindo, non ancora quarantenne, sposato, stempiato e con voce in falsetto e un piccolo avanzo di garbatezza torinese. Mise un sacco di tempo a fotografarli, continuando a dire che aveva una certa abilità nel suo mestiere, e che appena finita la guerra avrebbe riaperto il suo studio, ma non nel posto di prima, più verso il centro, e si augurava che loro due, da borghesi si servissero soltanto di lui per le loro necessità foto-ottiche in tempo di pace» (la traduzione dall’inglese di Fenoglio è di Bruce Merry).

Il ritratto del giovane Johnny con la giacca del British army 2
Soldati canadesi in service dress britannica in Normandia nel 1944 © Conseil régional de Basse-Normandie Archives nationales du Canada

Il dato è accertato: un fotografo di nome Francesco Ghija, un torinese che nel 1941 aveva aperto un suo studio in via Vanchiglia, era sfollato nel 1943 a Moncalvo con la moglie Alda Morzone, originaria del Casalese e divenuta anch’essa brava fotografa sulla scia del marito. Potendo contare sull’appoggio di familiari di lei, e sulla favorevole situazione del paese, grossa piazza commerciale al centro del Monferrato, apre bottega sulla salita detta dai moncalvesi la Fracia. La tiene fino alla fine della guerra, per cederla a un giovane del posto, che Francesco forma a dovere; ma anche dopo il ritorno a Torino il suo rapporto con Moncalvo non cessa, al punto da aprire una seconda bottega in piazza Carlo Alberto nel 1950, sotto i portici nuovi. Ce lo racconta a Torino, proprio nei locali (oggi chiusi) di via Vanchiglia, Giovanni Ghija, figlio di Francesco e Alda: nato a Moncalvo il 5 maggio del 1945, e continuatore fino a qualche anno fa della ditta familiare. La descrizione dell’Ur Partigiano lo convince, gli viene istintivo dire: «È la foto di mio padre», sebbene la scena presenti tratti da commedia leggera, come la «falsetto-voice» che pare esagerata (ma uno scrittore, anche autobiografico, fa comunque letteratura).

Analizza il ritratto di Fenoglio, che gli mostriamo dal documentario di Chiesa: «La qualità della riproduzione è certo relativa… Ma nella tecnica di illuminazione, vedrei proprio quella di mio padre. Era la sua impronta di luce negli anni Quaranta, quella che aveva appreso dai vecchi fotografi di Torino (Ecclesia, Mangini…) per i quali aveva lavorato da ragazzo: aveva ripreso elementi dall’uno e dall’altro, e aveva elaborato un mix che gli permettesse di fare qualcosa di diverso, di suo. Anche in base al ritocco che si vede sulla foto, potrei presumere che sia opera sua». Si intravede, come si dice, un mondo: di matite, mine, inchiostri, lastre di vetro, chassis e soffietti. Di fari (gli spot) ricavati per necessità dalle scatole di latta dei biscotti; di macchine fatte come cassette di legno, di varie taglie, da esterno e da studio: «Ecco quella di Moncalvo», ci mostra, «era nata per portare le lastre da 18 x 24 centimetri. Mio padre l’aveva poi modificata. Potrebbe essere quella che ha fatto la vostra fotografia».

Il ritratto del giovane Johnny con la giacca del British army 1
Giovanni Ghija con la macchina fotografica del padre Francesco

Non l’unica scattata a un partigiano, in quei mesi di resistenza, da parte di Francesco Ghija (che morirà giovane, di malattia, un anno dopo Beppe Fenoglio, nel 1964): Giovanni conserva una dichiarazione rilasciata al padre il 25 maggio del 1945 dal Cln (Comando III brigata Lazzarini): un ringraziamento per la sua opera sul campo, «facendoci fotografie a noi preziose per tesserini di riconoscimento», e per non aver parlato quando era stato in «ostaggio dai tedeschi, benché minacciato di morte per dare informazioni». Chissà se, dopo la guerra, Fenoglio e Ghija si sono mai rivisti? A metà degli anni Cinquanta, lo scrittore ripassa da Moncalvo mentre è in viaggio in auto per Milano con gli amici Ugo e Luciana Cerrato.

È diretto, peraltro, dall’editore Garzanti, che pubblicherà, nel 1959, l’esito d’autore della storia di Johnny, Primavera di bellezza. Quel che è certo è che Fenoglio, nel febbraio 1952, aveva scritto a Italo Calvino (che per l’altro suo editore, Einaudi, gli chiedeva una foto da usare per la pubblicità): «Sono sette anni circa che non mi faccio fotografare». Non era propriamente vero; ma volendo assecondarlo, e facendo il conto (come fa per esempio Piero Negri Scaglione nella sua biografia dello scrittore, appena ripubblicata), si arriverebbe a vedere il partigiano Fenoglio-Johnny entrare nella bottega di Francesco Ghija a Moncalvo. E se la foto che ripresentiamo fosse il risultato?

Edoardo Borra

Banner Gazzetta d'Alba