Le case di riposo troppo piccole non ce la fanno: uno studio Crc

«La mia salute  è condizionata dall’indigenza»

IL QUADERNO CRC Il sistema delle residenze per anziani non potrà sopravvivere con l’organizzazione attuale: lo ha dimostrato l’onda anomala della pandemia da Covid-19, che ha lasciato alle strutture una lunga serie di conti in rosso, per via degli ingressi bloccati e delle spese aumentate in modo esponenziale. Negli ultimi mesi, inoltre, il caro bollette ha complicato ancora di più le cose, ma il problema non può essere ricondotto solo alle emergenze: il modello della residenzialità per la terza età è in crisi da tempo, perché negli ultimi decenni è la stessa popolazione over 65 a essere cambiata, con nuove esigenze e con il bisogno di una rete in grado di dare risposte strutturate su più livelli di assistenza.

È questo il punto di partenza del Quaderno 43 della fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, intitolato Residenze di comunità. Un contributo per una nuova filiera della residenzialità e delle cure domiciliari. Presentato ieri, lunedì 20 giugno a Cuneo, è l’esito di un lavoro di ricerca iniziato più di un anno fa, grazie al coinvolgimento di una serie di partner: l’Associazione provinciale cuneese case di riposo, l’associazione di promozione sociale La Bottega del possibile, Confcooperative Cuneo e il dipartimento di psicologia dell’Università degli studi di Torino. Il contesto su cui si è concentrata la ricerca è la provincia di Cuneo, in cui operano 158 residenze per anziani, per un totale di 8.719 posti disponibili e oltre 6.500 lavoratori. Sul totale, 120 presidi sono accreditati con il sistema sanitario nazionale: mettono cioè a disposizione 4.569 posti letto per anziani non autosufficienti e 3mila per autosufficienti con l’integrazione della metà della retta attraverso i fondi regionali. Le restanti strutture sono presidi autorizzati e non accreditati, per un totale di circa mille posti. Una delle caratteristiche della Granda, che rappresenta anche una delle sue maggiori criticità, è la presenza di parecchie piccole residenze con meno di 38 posti: sono 45, quasi nessuna accreditata, spesso situate in zone montane o in paesi isolati. Sono realtà fondamentali per le comunità di riferimento, ma allo stesso tempo soffrono di una base organizzativa molto carente e sono per questo a rischio di sopravvivenza. A livello di bacini territoriali, sono 43 i presidi che si trovano nell’area dell’Asl Cn2, per un totale di 2.450 posti letto.

POCHI INGRESSI

Dal punto di vista metodologico, il perno della ricerca è stato il questionario rivolto a tutte le strutture della provincia Granda. Sono state anche effettuate interviste con esperti, che hanno riportato il loro punto di vista. E sono stati organizzati gruppi di discussione tra amministratori di strutture e dei diversi Comuni. Che cosa è emerso? Al questionario hanno risposto 87 presidi, nel periodo tra il 17 giugno e il 20 luglio dello scorso anno. Più della metà del campione è rappresentato da case per anziani che non superano i 60 posti e che pertanto rientrano a pieno nella tipologia di offerta caratteristica del Cuneese. Dal punto di vista dell’offerta, sono soprattutto Rsa ed Ra, cioè le classiche case di riposo per anziani non autosufficienti e autosufficienti. Per le Langhe e il Roero, hanno collaborato 25 presidi, sui 43 totali.

Il principale aspetto evidenziato è la fragilità delle singole residenze, ancora più evidente dopo la pandemia: si va dalla difficoltà organizzativa interna alle problematiche relative all’erogazione dei servizi, visto che spesso uno stesso presidio offre diversi livelli assistenziali. Ci sono anche problemi trasversali legati agli edifici, molti dei quali ristrutturati negli anni ’90 e oggi obsoleti: per esempio, c’è poca possibilità di garantire privacy agli ospiti che lo desiderano, con solo 755 posti letto singoli sul totale di 5.263 dichiarati dalle residenze interpellate. A emergere è anche l’impatto dei minori ingressi, un po’ perché oggi vivere in una casa di riposo continua a rappresentare una sorta di isolamento dal mondo esterno, ma anche per una questione di costi: per una persona non autosufficiente, la tariffa varia da 1.800 a tremila euro al mese, a seconda del livello di assistenza richiesto. E poi, sul totale dei posti letto dichiarati dalle strutture che hanno partecipato all’indagine della fondazione Crc, solo 1.989 sono accreditati in questo momento, cioè coperti dal servizio sanitario nazionale, con l’integrazione della metà della retta attraverso i fondi regionali. Rappresentano il 37,7 per cento del totale: significa che, in tutti gli altri casi, le tariffe sono completamente a carico delle famiglie. E in effetti, sul totale delle strutture che hanno risposto al questionario, il 33 per cento ha dichiarato di essere in una situazione critica, con almeno il 20 per cento dei posti liberi rispetto alla capienza.

SPARITI I VOLONTARI

Le conseguenze delle difficoltà si vedono nella riduzione dei servizi per gli anziani. Così, se il 74 per cento delle strutture ha dichiarato di avere potenziato le videochiamate, l’assistenza infermieristica e la sanificazione, il 57 riporta una riduzione dell’animazione, della fisioterapia, del supporto psicologico, dello svago, dell’assistenza religiosa e dei servizi alla comunità. Fondamentale il tema del volontariato, che si sta dimostrando più fragile rispetto al passato, perché le norme di sicurezza hanno bloccato questo canale e perché manca un ricambio generazionale. Così, delle 55 residenze che hanno dichiarato di avere portato avanti collaborazioni con volontari singoli, 25 hanno riferito di non averne più. Per quanto riguarda le associazioni, sono 23 le strutture che ammettono di avere perso i contatti con queste realtà rispetto al periodo precedente alla pandemia. Vengono così meno persone che, fino a qualche tempo fa, mettevano a disposizione il loro tempo, per integrare i servizi offerti.

IL NODO PERSONALE

L’altro punto critico è legato al personale, perché scarseggiano operatori sociosanitari e infermieri. È emersa una presenza media di 3,5 infermieri per struttura, ma ci sono realtà che possono contare su un solo professionista. E lo stesso discorso vale per gli Oss, 20 in media per residenza, ma scendendo fino a due.

Il problema non è solo quantitativo: si parla anche di qualità, dal momento che sono state evidenziate pure lacune relazionali con gli anziani. In effetti, una buona parte degli Oss manca delle giuste motivazioni e vede nella professione sociosanitaria l’unica possibilità occupazionale praticabile. Inoltre, manca la formazione continua e sono emerse carenze anche nelle figure dei direttori: oltre a operare dal punto di vista amministrativo, dovrebbero farsi carico degli aspetti relazionali e comunitari legati all’assistenza alle persone. Infine, ogni paziente dovrebbe essere seguito dal proprio medico, ma la materia è piuttosto confusa e una quota consistente di strutture ritiene che la presenza dei professionisti di base sia troppo saltuaria.

 Francesca Pinaffo

Carbonero: sviluppare la collaborazione tra strutture e l’assistenza domiciliare

L’INTERVISTA Parliamo con Francesco Carbonero, responsabile dell’Ufficio studi e ricerche della fondazione Cassa di risparmio di Cuneo.

Carbonero, quale sarà il futuro delle Rsa cuneesi?

«In questa fase, le strutture sono chiamate a reinventarsi. Il nostro studio ha indicato alcuni pilastri su cui puntare: l’aggregazione e l’apertura verso l’esterno. Nell’offerta della provincia manca la specializzazione: è comune che le Rsa offrano più livelli di assistenza. Ma, per i piccoli presidi è difficile reggere. In più, a parte rare eccezioni, ogni realtà è isolata, in un contesto in cui ogni paese ha la propria casa per anziani: questa mancanza di collaborazione crea un frammentarismo piuttosto penalizzante. Per quanto riguarda i rapporti con l’esterno, la riduzione dei volontari ha peggiorato la situazione: prima della pandemia, questi riuscivano a supplire a una serie di piccoli bisogni quotidiani».

Quali proposte avete sviluppato come Crc?

«Bisogna puntare a specializzare le strutture: quelle sotto ai 40 posti potrebbero essere utili agli anziani autosufficienti, sviluppando progetti ad hoc. Le grandi realtà dovrebbero aiutare le patologie dell’invecchiamento, per non autosufficienti. Inoltre, le residenze dovrebbero trasformarsi in centri multiservizi, condividendo risorse e professionalità anche a domicilio. Pensiamo alla fisioterapia o alla presenza di uno psicologo: per una piccola struttura, mantenere dipendenti può essere insostenibile, ma l’aggregazione è la soluzione. Allo stesso tempo, l’assistenza domiciliare diventerebbe una risorsa».

Ci sono in Italia e all’estero modelli alternativi?

«Esistono, certamente: parliamo di cohousing, gruppi appartamento, case-famiglia per anziani autosufficienti e comunità alloggio. Si dovrebbe sviluppare un’offerta specializzata, così da dare risposte a chi vive da solo senza problemi, ma ha bisogno di un piccolo supporto, come un’infermiera o un fisioterapista qualche volta alla settimana».

f.p.

La psicologa: accompagnare un periodo delicato di vita

INTERVISTA Norma De Piccoli è ordinaria di psicologia all’Università di Torino.

La terza età è un periodo delicato della vita ma anche denso di opportunità. Come stanno i nostri anziani, De Piccoli?

«L’Italia, dopo il Giappone, è il Paese con il grado d’invecchiamento maggiore su scala internazionale. Questa situazione porta con sé sfide e problemi. Dobbiamo chiederci: che cosa fare per accompagnare l’invecchiamento? Con l’aumento dell’età media moltissimi anziani arrivano a 90 anni e oltre: appare inevitabile affrontare le conseguenze del decadimento fisico e cognitivo».

I servizi sanitari esistenti sono sufficienti?

«Il problema riguarda la differenziazione dei servizi. Esistono due tipologie di presa in carico: le strutture residenziali e i caregiver, ovvero badanti e operatori sanitari a domicilio. Al di là di questo c’è poco o nulla. Servono sperimentazioni per capire come riorganizzare i servizi, per esempio serve l’intervento domiciliare attivabile in maniera più continuativa per ridurre la solitudine».

L’essere soli sembra la “malattia” principale della terza età.

«Gli anziani che vivono soli, senza un partner o un familiare, sono moltissimi. In alcune aree vengono attivate le “sentinelle”, vicini di casa o volontari che monitorano la situazione, funzionando da sostegno e appoggio quotidiano. Per quanto riguarda le case di riposo, si tratta di strutture importanti ma che sovente patiscono la carenza di risorse. Mancano Oss, infermieri, medici, psicologi, animatori per supportare la residenzialità. È importante lavorare sull’adeguamento di queste realtà per gestire la complessità».

Il Covid-19 ha influito?

«La pandemia ha aggravato la situazione anche psicologica delle persone con fragilità, esacerbando l’isolamento sociale. Da anni noi, psicologi e sociologi, diciamo che è necessario istituire e potenziare i servizi territoriali, altrimenti rimane soltanto il volontariato a rispondere alle innumerevoli solitudini esistenti».

Che cosa accade nel Cuneese, dove esiste una popolazione anziana molto numerosa?

«Per quanto riguarda la Granda è necessario riflettere sulla conformazione molto eterogenea del territorio. I borghi, i territori montani e le valli collocate a una certa distanza dai maggiori centri urbani pongono il problema dell’isolamento sia sociale che logistico, perché ospedali e strutture sanitarie risultano lontane da molti anziani e creano un grande rischio d’isolamento. Serve ribadire la necessità di lavorare in direzioni molteplici sul fronte dei servizi, dotandoci delle strutture e dei processi in grado di accompagnare nel migliore dei modi un periodo piuttosto delicato della vita».

 Matteo Viberti

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