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Festival di Venezia: il Governo promette sconti fiscali per chi ingaggia attori italiani

È polemica per quegli attori stranieri che interpretano e raccontano storie di personaggi italiani

Festival di Venezia 3

VENEZIA Il Governo italiano si muove anche per il Festival del cinema con la polemica sull’italianità degli attori in film che raccontano storie e personaggi italiani. Il tema dibattuto, dopo l’uscita del film Ferrari alla Mostra del cinema, dove il protagonista principale è stato interpretato da un attore straniero, porta a dire a Lucia Borgonzoni, sottosegretaria con delega per l’audiovisivo in un’intervista al Lido, che il problema «riguarda tutto il settore e per questo ho deciso di convocare un tavolo di confronto in cui le produzioni italiane ed estere, attori, attrici e rappresentanti di categoria, possano affrontare questi temi in maniera congiunta».

I lavori saranno ospitati al Ministero della cultura e Borgonzoni ha ricordato che l’impegno a sostegno delle produzioni e delle maestranze italiane è prioritario per il Ministero: «Saranno stanziate premialità in forma crediti fiscali alle produzioni per promuovere la selezione di registi, attori e attrici italiane». Nel decreto di riparto delle risorse per il 2023, alle produzioni audiovisive, sono assegnati circa 370 milioni di euro.

Il tema dei migranti

La giornata di oggi è quella che vede sul grande schermo il tema dei migranti portato da Matteo Garrone col film in concorso Io capitano, il viaggio avventuroso di Seydou e Moussa, due giovani che lasciano Dakar per raggiungere l’Europa. Un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia e i pericoli del mare.

Io capitano

Racconta un aspetto del viaggio della speranza dall’Africa nera all’Europa che spesso viene trascurato nel racconto giornalistico e tra nuovi schiavisti, taglieggiatori, pericoli di ogni tipo che vanno oltre alla fame e alla sete ciò che resta è il primo piano sull’umanità che sceglie di intraprendere questo viaggio, ricordando allo spettatore che per farlo lasciano qualcosa e qualcuno e non il nulla, come spesso si è portati a pensare. «Per realizzare il film siamo partiti dalle testimonianze vere di chi ha vissuto questo inferno e abbiamo deciso di mettere la macchina da presa dalla loro angolazione per raccontare questa odissea contemporanea dal loro punto di vista, in una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale, nel tentativo di dar voce, finalmente, a chi di solito non ce l’ha», racconta Garrone ai microfoni. Ancora una volta, insomma, il cinema, sa illuminare parti di noi costringendoci a farci i conti.

Cambiare il modo di pensare

Corre in concorso per il Leone d’oro anche Origin il film di Ava DuVernay che presenta la vita e l’opera straordinarie della scrittrice afro-americana Isabel Wilkerson, una donna che ha scardinato uno dei feudi della borghesia bianca americana e vincitrice del premio Pulitzer (uno dei più prestigiosi, se non il più prestigioso riconoscimento per chi si occupa di fare inchiesta), mentre indaga sulla genesi dell’ingiustizia e svela una verità nascosta che ci riguarda tutti, ovvero l’origine delle caste. Talvolta la bellezza non sta nell’aspetto esteriore. Talvolta la bellezza è una verità rivelata, una lezione appresa.

Origin

«Il film ha cambiato il mio modo di pensare al lavoro e alla vita, all’amore e all’esistenza. La storia della realizzazione di questa pellicola rispecchia il viaggio della protagonista all’interno del film. Isabel Wilkerson trova la bellezza nel coraggio, nell’ignorare i detrattori e nel trasformare il trauma in trionfo. Fortunatamente, l’ho fatto anch’io», dichiara la regista. Una storia che un’artista militante per i diritti civili contro la segregazione e il razzismo come DuVernay non poteva farsi sfuggire permettendo al grande pubblico di scoprire l’impegno della Wilkerson a favore dell’integrazione e l’uguaglianza tra le persone.

Un sobborgo francese

La giornalista francese freelance già autrice di documentari radio e di corrispondenze dall’Esagono e dall’estero per Radio France oltre che per emittenti svizzere e belghe oltre a diverse testate, Céline Rouzet porta al Lido il suo lungometraggio in gara per la sezione Orizzonti En attendant la nuit (Aspettando la notte). Prendiamo un sobborgo tranquillo e soleggiato in Francia. Famiglie normali in una città normale. Giardini verdi. Grigliate gioiose e musica gradevole. Volti sorridenti. Aggiungiamo i nuovi vicini. Il figlio è strano, timido e di una bellezza inquietante. Un pallore malaticcio. Mescoliamo il tutto con il furto, la menzogna e i morsi, e vediamo cosa succede quando la famiglia Feral si trasferisce in un nuovo quartiere e ha intenzione di apparire il più normale e affabile possibile.

La regista Céline Rouzet col cast di En attendant la nuit

Il figlio, Philemon, non è un adolescente normale. Quando si avvicina alla sua nuova vicina, Camila, la sua sete di sangue cresce e la sua diversità diventa impossibile da dissimulare. Dichiara la regista: «Questa storia trae ispirazione direttamente dalla mia famiglia e dalla mia adolescenza. Il film di genere era l’unico modo per raccontarlo. È un film cupo, drammatico, romantico ed esilarante su una persona che cerca disperatamente di integrarsi e di trovare risposte attraverso l’amore. Parla anche di marginalità e conformismo, di sacrifici familiari, di esplosioni di rabbia, di desideri selvaggi e della ferocia che si cela sotto la superficie dell’ordinaria vita occidentale».

Con questo film, la regista porta a Venezia il suo vampiro, che spiega essere un mostro fragile in quanto la sua condizione è invisibile al primo sguardo, ma quando viene scoperto incute immediatamente paura. Per Rouzet il vampirismo è paragonabile a una malattia rara o a una forma di depressione, qualcosa che comunque porta all’isolamento soprattutto in una società indifferente dei bisogni altrui e sempre più individualista. La bravura della regista è quello di portare alla luce la violenza scatenata dalla società che spinge oltre il limite le persone non aderenti a quella che si vorrebbe la normalità prestabilita. Così il giovane e affettuoso Philemon (interpretato da Mathias Legoût-Hammond) che cerca di nascondere il suo segreto integrandosi nella nuova realtà sociale, diventa il mostro che la società vede in lui. Una pellicola per riflettere sull’importanza del dialogo, del lasciare esprimere le persone permettendo loro di non nascondersi. Una lezione per accogliere il diverso in un mondo che ci vorrebbe tutti uguali.

Walter Colombo, inviato a Venezia

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