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Mostra del cinema: a Venezia non si può dimenticare di riflettere sul racconto delle guerre e delle contraddizioni

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VENEZIA Anche quest’anno, come ogni anno, sul red carpet le star mettono in scena la favola di un mondo luminoso e sorridente, dove il cinema può diventare la cura di tutte le ansie, la sfilata di abiti può occupare a tappeto gli spazi del Web, gli applausi infiniti possono diventare motivo di lacrime e commozione. È il festival della bellezza, eppure quest’anno oltre alle apparenze, alla parata di nomi celebri, non si può dimenticare di riflettere sul racconto delle guerre e delle contraddizioni, ma anche sulle derive razziste e intolleranti e questo lo si può fare grazie e attraverso il cinema, che deve educare, far riflettere, creare opinione, grazie proprio alle pellicole presentate al Festival che trattano i grandi temi di attualità.

Monsignor José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione

Un cinema che educa e sensibilizza? Un cinema come scuola del sentimento? Lo dichiara oggi il cardinal José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione giunto al Lido per l’81ª edizione del Festival dove non ha dubbi con una settima arte che «ha a che fare con la necessità di parlare di educazione in termini trasversali, affinché si possano costruire idee. In questa Europa che non sa più come fronteggiare l’emergenza educativa, dobbiamo aiutarci per capire il valore dell’incontro, qualcosa che riguarda tutta la società e non soltanto i ragazzi».

Prosegue ricordando quanto sia decisivo il magistero del pontefice: «Papa Francesco contribuisce a offrire una visione che va oltre la predominante centralità del singolo e che mette al centro la ricerca di senso, la necessità di una vita spirituale che si riflette nell’esperienza con gli altri. È una proposta culturale ma anche una preoccupazione educativa fatta di grandi parole e grandi gesti».

Monsignor Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia

Presente anche il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia che senza esitazione dice: «I film devono indurre a riflettere, promuovere una discussione, favorire l’incontro con quella realtà che spesso tendiamo a subire. E che invece dobbiamo affrontare con la virtù dell’amicizia, la base di ogni incontro. È fondamentale creare socialità laddove ci sono degrado, ingiustizia, solitudine». Forse l’ora più buia sta per tornare, ma il cinema ci dice che, per superarla, dovremo impegnare davvero tutta la forza che ci è rimasta e perché no, proprio a partire da Venezia.

I film di oggi

Se oggi vale il detto delle spose: «Sposa bagnata, sposa fortunata», allora i film di oggi saranno sicuramente fortunati. Ma basterà la pioggia a darli come favoriti in questo Festival ricco di emozioni? Sbarca al Lido, sotto una pioggia battente, la mafia portata da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza col loro film in concorso Iddu, una storia italiana troppo vera purtroppo, quella della lunga latitanza – certamente agevolata da silenzi e distrazioni – di Matteo Messina Denaro, incontrastato boss di Cosa nostra catturato nel gennaio del 2023 in una clinica privata.

Siamo in Sicilia, primi anni Duemila. Dopo alcuni anni in prigione per mafia, Catello (interpretato da Toni Servillo), politico di lungo corso, ha perso tutto. Quando i servizi segreti italiani gli chiedono aiuto per catturare il suo figlioccio Matteo (interpretato dal bravissimo Elio Germano), ultimo grande latitante di mafia in circolazione, Catello coglie l’occasione per rimettersi in gioco.

Uomo furbo dalle cento maschere, instancabile illusionista che trasforma verità in menzogna e menzogna in verità, Catello dà vita a un unico quanto improbabile scambio epistolare con il latitante, del cui vuoto emotivo cerca di approfittare. Iddu, infatti, è segregato in un appartamento e il suo contatto col mondo è una donna, interpretata da Barbora Bobulova; ma l’uomo non è solo in quella casa, gli fanno compagnia i fantasmi del passato, dal padre a tutti quelli a cui ha tolto la vita. Fuori trova qualcuno che gli offre qualcosa che paradossalmente ha il sapore di libertà.

Un azzardo che Catello fa con uno dei criminali più ricercati al mondo, però questo comporta un certo rischio. «L’idea iniziale di questo film è nata dalla lettura dei numerosi pizzini ritrovati nel corso della lunga latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro», dichiarano i registi. Attraverso queste insolite lettere, il boss gestiva la sua vita in clandestinità e i suoi affari. I pizzini trascendevano però la funzione pratica di comunicazione criminale e lasciavano emergere aspetti della sua personalità e la natura del mondo tragico e ridicolo che intorno a lui volteggiava spericolatamente.

«Traendo libera ispirazione dai pizzini, Iddu racconta il carteggio fra Matteo, principe riluttante di un mondo insensato, e Catello, maschera grottesca di solare amoralità. Con Matteo e Catello ci immergiamo nel vuoto dentro il quale un popolo sguazza come fosse un gran mare baciato dal sole e dagli dei», continuano i registi. Una storia che farà sicuramente discutere, ma la cosa più importante è che non fa dimenticare, soprattutto il fatto che non si sparisce per trent’anni senza l’aiuto di qualcuno.

Per la prima volta in concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia approda un film di Singapore grazie al regista Siew Hua Yeo, il quale presenta un thriller dal titolo Stranger eyes. Protagonisti del giallo, che trova il suo innesco nelle videocamere di sorveglianza, sono due acclamati attori taiwanesi, Lee Kang-Sheng e Wu Chien-Ho.

Dopo la misteriosa scomparsa della propria bambina, una giovane coppia inizia a ricevere strani video e si rende conto che qualcuno ha filmato la loro vita quotidiana, persino i momenti più intimi. La polizia mette la casa sotto sorveglianza per tentare di sorprendere il voyeur, ma la famiglia inizia a sgretolarsi a mano a mano che i segreti si svelano sotto lo sguardo attento di occhi che li osservano da ogni parte.

«Al parco una volta ho visto un uomo. Era anziano, dall’aspetto ordinario. Mentre lo fissavo, ho iniziato a crearci attorno una storia. Ho capito più tardi che stavo proiettando su quest’uomo anziano le mie aspirazioni, arrivando a considerare che poteva essere un riflesso di me stesso. Ero incuriosito dall’emozione di dare segretamente forma a questa storia, quando ho notato le telecamere di sorveglianza tutto intorno a me. Ero stato osservato tutto il tempo. C’è sempre qualcuno che guarda», spiega il regista sulla genesi del film.

In un piccolo stato insulare come Singapore, dove non c’è via d’uscita dalla rete di sorveglianza, osservare ed essere osservati diventa un rituale quotidiano. Con un’elevata densità di popolazione e una sorveglianza pervasiva, il moderno paesaggio urbano ci trasforma in testimoni involontari delle vite degli altri, con tutte le conseguenze del caso. Ancora più affascinante è chiedersi in che modo osservare gli altri rifletta le nostre azioni e le percezioni di noi stessi. Dopotutto non possiamo cancellare ciò che abbiamo visto.

Stranger Eyes riflette su queste domande e sull’interazione tra vedere e essere visti. In un’epoca in cui il nostro senso di connessione attraverso il consumo visivo sembra al contempo illimitato e alienante, la consapevolezza di essere costantemente osservati, sia attraverso i social media sia come necessità etica di sicurezza, plasma le nostre identità come attraverso uno specchio, confusamente.

Però l’atto del vedere non è passivo, ma riflessivo e trasformativo: un pericoloso gioco di simulazione che potrebbe portare al collasso dell’idea di un’identità stabile. Il direttore artistico Alberto Barbera presenta la pellicola come «un’opera a strati che si presta a più letture, un’escursione metalinguistica sul cinema, in cui si avverte l’eco dei film di Hitchcock, in particolare La finestra di fronte del 1954, ma anche la larvata denuncia di un Paese sotto l’occhio delle videocamere di sorveglianza e infine una riflessione sulla nozione di famiglia. Un’opera più complessa di quel che appare a prima vista al di là di quello che è un ben oliato meccanismo giallo su verità e menzogna».

La regista georgiana Dea Kulumbegashvili porta al Lido il suo April, secondo lungometraggio di finzione in concorso. Dopo la morte di un neonato durante il parto, l’etica e la professionalità di Nina, una ginecologa, vengono messe sotto esame per via di voci secondo cui eseguirebbe aborti illegali per chi ne ha bisogno. Incontra le donne nei loro momenti più intimi, in preda a un travaglio straziante quando stanno per diventare madri o durante aborti dolorosi e clandestini di nascosto dalla famiglia.

Nina è un personaggio che ama universalmente ma non ama nessuno in particolare. Possiede un’empatia sconfinata ma fa fatica a stabilire legami personali. Spinta unicamente dalla propria missione, non desidera e non ha bisogno di nulla per sé. Alla fine si ritrova però incapace di contribuire a un vero cambiamento. Il tutto raccontato con uno stile asciutto e insieme evocativo, tra lunghe inquadrature fisse e momenti di trascendenza che fanno pensare a Bresson.

Quella di April è la storia immersa nelle contraddizioni del Paese d’origine della filmmaker, dove l’interruzione di gravidanza è un reato, una pellicola di estrema attualità. «Il mio obiettivo con April era di esplorare e analizzare la dicotomia e la convergenza tra esistenza e femminilità. Questo mi ha naturalmente portata ai temi della nascita e della morte.

La storia inizia con una donna singolare, un personaggio intriso di una certa qualità epica, considerata la vasta portata della vita e dell’esistenza di un individuo. Una persona in grado di sopportare sofferenze e incanalare quel dolore nelle scelte e ambizioni della sua vita. Nonostante questo, resta con i piedi per terra e ben separata dal resto del mondo», commenta la regista. Un film che approfondisce gli aspetti tangibili e terreni della vita, nonché le dimensioni enigmatiche e inspiegabili dell’essere.

Walter Colombo, inviato a Venezia

 

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