L’India non va amata e neppure odiata: bisogna comprenderla

La nostra collaboratrice Elisa Pira racconta l’esperienza di volontariato che l’ha portata durante l’inverno nel Paese asiatico

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REPORTAGE L’inverno per me è la stagione del viaggio di volontariato, nonostante il mondo stia diventando più piccolo per le tante problematiche di ordine sociale e di sicurezza che precludono l’accesso ai luoghi che del volontariato avrebbero più bisogno. La scelta della destinazione non è mai semplice. Il progetto, la logistica, il clima, la salute. Sono tante le voci da mettere sul piatto della bilancia, ma alla fine l’ago indica sempre la stessa direzione.

Partire per l’India

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La scelta quest’anno è caduta sul continente asiatico. Dopo lunghe ricerche, ho individuato la prima delle mie due tappe, di un mese ciascuna: l’India. Con questo Paese sentivo di avere una partita ancora aperta. Ci avevo già trascorso un mese nel 2018, al Nord, ed ero ripartita al termine di un’esperienza piuttosto forte, sia di viaggio che, soprattutto, di volontariato, con le idee confuse e la sensazione di aver capito nulla. L’India è un Paese che deve far fronte a giudizi e pregiudizi trasmessi come fossero verità inconfutabili, paradossalmente, di solito, da parte di chi non ci è mai stato, oppure da chi va in vacanza, magari una o due settimane per un rapido tour, e dopo un breve lasso di tempo trascorso in zone circoscritte e con limitati contatti coi locali torna a casa con la convinzione di aver compreso l’essenza di un subcontinente. «L’India o la ami o la odi», ho sentito ripetere mille volte, e mai mi sono riconosciuta in quella frase così limitante, forse perché non ho mai desiderato né amarla né odiarla, piuttosto ho sempre cercato di comprenderla.

Verso Sud

Così ci ho riprovato, questa volta puntando al più semplice Sud, di nuovo pronta a farmi coinvolgere in un progetto di volontariato. L’avventura ha avuto inizio nel Goa, un posto dove fino a poche settimane prima non avrei mai creduto di voler andare, perché troppo turistico, troppo occidentalizzato, troppo vittima di quel tipo di sviluppo che io, che nel turismo lavoro da tanti anni, aborro e temo, quello che sradica ogni legame con il territorio e mette nel dimenticatoio le esigenze dei suoi abitanti in nome di un guadagno del quale poi sono in pochi a beneficiare.

Il “mio” Goa

L’India non va amata e neppure odiata: bisogna comprenderla 2Eppure l’ho scelto. È bastato leggere una testimonianza relativa al progetto in una casa di riposo perché il mio no diventasse un sì. Visto e piaciuto. Ciò che mi turbava, l’occidentalizzazione di quello che è il più piccolo Stato dell’India, da anni travolto dal turismo, in realtà è risultato essere solo una faccia (certamente la più nota) della medaglia.

Il “mio” Goa è stato tutt’altro: il volontariato mi ha portata altrove, lontana da quelle spiagge che ho potuto vedere, ma che non rappresentano la mia esperienza se non per una piccola parte conoscitiva.

Ho avuto la fortuna di soggiornare in una casa sul fiume, in un villaggio perso tra il verde dei palmeti, avvolta dai profumi degli incensi del tempio induista poco distante, catturata dal fascino delle chiese e dai forti, residuo dell’epoca coloniale, di godermi ogni sera il tramonto dalla riva del mare insieme a tanti indiani che ancora sanno godere di quella semplice magia di luce e colori che si ripete ogni giorno.

Ogni mattina venivo accompagnata in motorino in un villaggio poco distante da Kallyan e Harseerat, i coordinatori del progetto che nel periodo trascorso con loro mi hanno aiutata a sperimentare ogni aspetto della cultura nella quale ero desiderosa di immergermi.

Il ciclo della vita

Trascorro le mattinate in una casa di riposo femminile. Ogni giorno il nostro arrivo è una festa: le anziane accorrono sul patio per passare del tempo insieme. Alcune hanno voglia di raccontarsi. Maria, dopo abbracci e baci per tutti, chiede la musica per poter ballare, meglio se con noi. Shirley elargisce caldi sorrisi, Gilda, figlia di un ambasciatore, racconta i suoi viaggi all’estero e di suo padre, che amava l’opera. Il programma di attività è ricco, a partire dall’attesa manicure del lunedì che, a differenza della ginnastica, mette tutte d’accordo, soprattutto nel finale: lo smalto a mani e piedi, in un colore a scelta che rispecchia la personalità della ricevente. Tenui tonalità del rosa per le più timide, rossi accesi per le più esuberanti. E poi il massaggio con l’olio profumato il martedì, le attività manuali il mercoledì, quelle artistiche il giovedì, e così via.

I miei pomeriggi, invece, sono dedicati a chi sulla vita si è appena affacciato: i bambini. Il cerchio della vita si apre e si chiude davanti a me ogni giorno, nell’arco di poche ore. I bambini del progetto, una trentina, di tutte le età, vivono in uno slum in periferia, un gruppo di baracche che ospita le numerose famiglie degli operai dei cantieri edili dei dintorni, provenienti da varie parti dell’India, trasferitisi lì per lavoro. Teniamo occupati i piccoli per alcune ore con attività educative, accuratamente preparate da Kallyan e Harseerat, che non solo dirigono i progetti, ma vi si impegnano in prima persona, garantendone il proseguimento anche in assenza di volontari.

Piante e spezie

Nel tempo libero, lontana dalle spiagge prese d’assalto dai turisti e dai locali che servono birra ghiacciata e gelati, vivo un Goa verde di piante tropicali e piantagioni di spezie, e azzurro di corsi d’acqua e cascate, paesaggi che gli abitanti vedono minacciati dalle costruzioni selvagge che da anni stanno modificando il Paese in nome di uno sviluppo difficile da decifrare. Quasi non volevo venirci e alla fine non vorrei più andarmene. Invece mi aspetta un altro progetto ancora più a Sud.

Nel Kerala

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Arrivo a Kochi, affascinante città portuale e fulcro artistico del Kerala, a notte fonda, in un caldo sempre più torrido. La nuova esperienza si rivela impegnativa: si tratta di insegnare inglese alle elementari di due scuole governative. Sono classi numerose e i bambini piuttosto scatenati, ma come sempre la soddisfazione è pari al grado di difficoltà. Anche qui, come in ogni scuola del mondo in cui ho avuto il piacere, negli anni, di collaborare, che fosse in Kenya o in Vietnam, in Messico o in Nepal, i bambini sono gioiosi e con tanta voglia di imparare. Le giornate iniziano prima dell’alba, con una passeggiata fino al mare, per vedere i pescatori gettare le reti e le prime luci brillare sull’acqua scura. Poi il chai, il tè speziato col latte, che diventa un rituale. E, dopo la scuola, lo street food e i mercati, il kayak sul fiume, lo yoga, gli spettacoli di kathakali, teatro-danza unico nel suo genere, e tante altre attività condivise con i volontari e con le persone del luogo. Come sempre, il Paese mi conquista attraverso la gente.

Quando il caldo si fa davvero insopportabile, arriva l’ora di ripartire. Lascio l’India con lo zaino carico di tè e spezie e il cuore pieno di vite da ricordare e di storie da raccontare. La destinazione successiva è ancora una volta più a Sud.

Elisa Pira

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