
ALBA – Sabato 17 maggio alle ore 17.00, Edo Prando presenterà “Tra gli Yanomàmi dell’Amazzonia profonda”, con immagini e testimonianze che raccontano la sua esperienza in uno dei luoghi più remoti del pianeta. Un racconto per immagini e parole che porta il pubblico nel cuore della foresta sudamericana, al confine tra Venezuela e Brasile, dove la modernità ha faticato ad arrivare.
Originario di La Morra, Edo Prando era un giovane studente di medicina con la passione per la fotografia quando prese parte alla spedizione etno-antropologica “Ocamo ‘68”, organizzata dalla Facoltà di Geografia dell’Università di Torino.
Edo Prando, classe ’44 è un giornalista, fotografo professionista, è stato direttore di alcune tra le riviste di fotografia più prestigiose a livello nazionale. Attualmente è responsabile con Marina Macrì del service editoriale P.M. Studio e del relativo sito pmstudionews.com e del blog Lithuanian Stories, che raccoglie e racconta storie lituane dimenticate
Il racconto di Edo Prando
« Lo scrittore argentino Borges afferma che non sei tu a raccontare le storie ma sono loro che ti cercano per farsi raccontare. Non so se sia vero, ma mi è capitato spesso. Negli anni sessanta abitavo a Torino. Il caso mi portava a passare davanti ad un’edicola nell’angolo di piazza Carlo Felice, quella davanti alla stazione di Porta Nuova, che guarda via Nizza. Come tutte le edicole non esponeva solamente giornali ma anche libri, quelli tascabili, che la gente comperava per avere qualcosa da leggere in treno. Libri dal prezzo contenuto, alla portata anche delle mie tasche da studente. Uno mi chiamava con insistenza, ogni volta che passavo davanti all’edicola. Lo presi. Samatari era il titolo che campeggiava sulla fotografia di un indio dell’Amazzonia nell’atto di frecciare. L’autore era italiano, Alfonso Vinci. Insegnava, secondo il risvolto di copertina, all’Università di Merida, in Venezuela. Argomento: le sue avventure presso una misteriosa tribù perduta dell’Amazzonia venezuelana, alle sorgenti dell’Orinoco. Quanto bastava per far sognare un ragazzo della mia età. Un sogno sognato anche negli anni successivi, quando già frequentavo la facoltà di Medicina e vivevo casalinghe avventure di montagna e speleologia. Un sogno che, improvviso, divenne realtà. Era il 1968.
“Assieme alla facoltà di Geografia, stiamo organizzando una spedizione nell’Amazzonia del Venezuela. Ricerca e anche aiuto a un missionario torinese che da quasi vent’anni lavora laggiù nell’Alto Orinoco in c…capo al mondo…”.
M’informa l’amico del direttivo del CAI.
“ Bello..” rispondo, covando invidia
“..tu sei fotografo e sei quasi medico, vuoi far parte della squadra in questa doppia veste?” Ribatte lui. Non potevo rifiutare la proposta. Così mi trovai a navigare, per centinaia di chilometri, il grande Orinoco fino alla confluenza del rio Ocamo, il suo primo importante affluente di destra là dove Padre Luigi Cocco, salesiano, aveva messo su la missione di Santa Maria de Los Guaycas. Waika, Guaycas erano nomi con in quali erano allora conosciuti gli Yanomami, etnia tra le meno conosciute a causa dell’impervia geografia dei luoghi, alle sorgenti dell’Orinoco, sull’incerto confine tra Venezuela e Brasile. Veramente in c…capo al mondo. Addirittura alcune tribù non erano mai state mai contattate. Tra queste gli Sciitari dell’alto corso del rio Ocamo, quei luoghi raccontati anche da Vinci in Sciamatari. Aveva ragione Borges.
L’incontro con la tribù perduta
Scopo della spedizione era un rilievo, il più preciso possibile, del rio Ocamo nella parte ancora mai percorsa, a causa di una serie di rapide che ne blocca il corso presumibilmentea metà percorso. Gli accurati rilievi satellitari erano ancora da venire e si procedeva quasi come ai tempi di Humboldt. Giorni di risalita nelle curiare, piroghe indigene scavate in un tronco, ma dotate di fuoribordo. Giorni di soste negli “shabono”, la grande tettoia circolare che delimita uno spazio centrale e sotto la quale vive l’intera tribù. Padre Cocco è la nostra guida e il nostro lasciapassare. La sua fama, negli anni, è arrivata anche dove lui non è mai stato. Distribuisce ami, filo da pesca, perline colorate, magari un machete, un coltello. Le perline colorate sono una moneta. Non per l’ingenuità degli indi, attratti dall’apparenza. Collane e altri ornamenti di piccole sfere bianche, rosse e blu facevano parte della cultura india prima dell’arrivo degli europei. Erano faticosamente e sapientemente ricavate da pietre e ossi di vegetali. Dopo furono solamente le perline di vetro prodotte a Venezia. Finalmente arriviamo alle rapide, i “raudales” in spagnolo , “arata pora” in lingua yanomami. Qualche centinaio di metri caratterizzati da una serie di dislivelli di qualche metro sui quali il rio brontola minaccioso e impedisce la risalita. Tiriamo le curiare su una spiaggetta, allestiamo un piccolo campo, costruiamo alla maniera india ripari di frasche cui appendere le amache e riparare il fuoco . Nei giorni seguenti tocchiamo con mano cosa significhi il detto piemontese “ come una barca nel bosco”…dobbiamo superare le rapide aprendo col machete un sentiero nella selva e trascinare le barche. Umidità al 100%, temperatura intorno ai 40 gradi. Passiamo e riprendiamo la risalita del rio per un paio di giorni. Dovremmo essere nel territorio dei misteriosi Sciitari. Rileviamo tracce. Abbiamo la spiacevole sensazione di occhi che ci controllano dietro il muro di foresta che difende la riva. Tuttavia niente. Lungo l’Ocamo non ci sono stazioni di rifornimento. Dobbiamo tornare indietro aiutati dalla corrente. Troppo aiutati, visto che rischiamo il naufragio sulle rapide. Ma con l’aiuto di Don Bosco, come bonariamente afferma Padre Cocco, ce la facciamo e riportiamo le curiare per la strada nel bosco. E qui, come studiato da un esperto regista, sarà Don Bosco? Il colpo di scena. Dalla foresta emerge un piccolo gruppo di indi che si dirige verso Padre Cocco mormorando “…pare Coco…pare Coco…”. Sono loro, gli Sciitari. Per tutti quei giorni ci avevano tenuti d’occhio e solo dopo essere certi che eravamo con Padre Cocco si erano fatti avanti. Passano un paio di giorni in reciproci convenevoli. Padre Cocco conosce bene la lingua. Gli chiedono di che tribù siamo noi. Conoscono le tribù più a valle: gli Yeshibui-teri, gli Ocamo-teri, gli Yapropo-teri…non conoscono la nostra provenienza…padre Cocco risponde che siamo Torino-teri cioè la tribù (-teri) di Torino…ci guardano e si mettono a ridere …sotto la gran barba di Padre Cocco indoviniamo un sorriso divertito. Ci spiegherà dopo che “torino” è per loro il nome di un fastidioso insetto infestante.
Primo contatto
Quelli erano in primi Sciitari che vedevamo e loro erano i primi ”bianchi” che vedevano. Ma la tribù, dov’era? Guardo negli occhi Paolo, lo psicologo e etnologo del nostro gruppo. Compagno di esplorazioni speleologiche. Sì, abbiamo la medesima idea. L’accenniamo timidamente a Padre Cocco che, forse avvertito da Don Bosco, l’aveva già capita. Confabula con gli Sciitari. Fa larghi gesti verso di noi. “..shori..shori..” ( amici, amici) ripete. Li convince, anche con la promessa di una congrua manciata di perline, qualche amo da pesca e qualche metro di filo di nailon. Domattina ci guideranno fino al loro shabono. Padre Cocco e gli altri della spedizione ci aspetteranno alla spiaggetta. Non è prudente andare tutti. Potrebbero avere paura e, si sa, la paura è cattiva consigliera. Per il medesimo motivo non portiamo con noi uno dei due fucili che finora abbiamo usato per procurarci da mangiare. Il mattino partiamo quando fa chiaro, intorno alle sette. Agili percorrono veloci poco evidenti sentieri. Quasi corrono, scalzi. Noi li seguiamo impacciati dal bagaglio: un’amaca, un telo per riparare dalla pioggia in caso di bisogno, un casco di banane. Io ho anche tutta l’attrezzatura fotografica. E sono ore tra gli immancabili acquazzoni, il guado di rii piccoli e grandi, di incerte paludi. Sono quasi le cinque del pomeriggio, a quelle latitudini poco manca al tramonto, quando sbuchiamo in un “chiaro” della foresta, uno spiazzo disboscato. Davanti a noi l’erta di una bassa collina. E’ finito da poco un temporale e i raggi del sole al tramonto giocano tra le nubi con effetti da film. I nostri accompagnatori si fermano. Ci fermiamo anche noi. Iniziano a gridare verso la sommità della collina. Da lussù rispondo altre grida. Passano i minuti fino a che vediamo spuntare da dietro il crinale un uomo, poi due, poi tre. Scendono. Sono anziani. Saliamo loro incontro, seguiti dai nostri accompagnatori. Siamo a pochi metri…mormoriamo “shori..shori..” (amici amici) anche loro mormorano. Ci guardiamo negli occhi, ci abbracciamo…. shori…shori..sento che il vecchio che abbraccio trema…penso a un attacco di malaria, da queste parti endemica….solo dopo capisco che aveva paura…come me, anche se non tremavo…
Saliamo allo shabono, sono soltanto poche e piccole tettoie con non più di una decina di fuochi. Tutti maschi, anche i bambini. Qualcuno ci guarda da lontano, altri si avvicinano, curiosi specialmente delle nostre barbe. Loro sono glabri. Anche i peli sulle braccia li stupiscono un po’. Li toccano, come la barba. No, non è un ornamento posticcio. Passa qualche tempo e dalla foresta spuntano le donne e le bambine. Le avevano nascoste, per paura. Non è inconsueto il ratto delle donne tra le tribù Yanomami. Per non parlare dei meticci, cercatori d’oro o di diamanti, che talora bazzicano la foresta. Rimaniamo tra Sciitari per tre magnifici giorni. La mattina del quarto prendono i nostri zaini, li riempiono con le nostre cose a ci fanno capire che dobbiamo andarcene. Chiediamo a gesti e con le poche parole che conosciamo che qualcuno ci accompagni. No, nessuno. Inutile insistere. Dobbiamo andarcene. Abbiamo davanti a noi una giornata di cammino in una foresta dai sentieri incerti e sconosciuti. Ci avviamo cercando di ricordare quel grande albero che avevamo visto all’andata, quella particolare ansa di ruscello e anche – esperienza fatta vivendo in foresta già da qualche tempo- quei segni fatti col machete sui tronchi degli alberi più grossi all’andata. Finalmente, è già verso il tramonto, sentiamo il rumore delle rapide..affrettiamo il passo e arriviamo alla spiaggetta gridando per farci sentire dagli amici. Silenzio, solamente il rumore delle rapide. Nessuno. Solamente una barca arenata sulla sabbia, dentro un biglietto: siamo scesi a valle, ci vediamo alla prima tribù che incontrerete. Ci attende una notte incerta. Appendiamo le amache ai pali delle tettoie che avevamo costruito giorni prima, accendiamo il fuoco, e attendiamo l’alba. Abbiamo con noi un registratore a cassetta. Dettiamo le nostre impressioni a futura memoria».
L’incontro il 17 maggio alle ore 17.00 nella sede dell’Associazione Alec Gianfranco Alessandria in Via Vittorio Emanuele, 30 ad Alba.
