Capro espiatorio oppure rifugio: il doppio ruolo della religione
Che cosa succede alle persone che si ritrovano spettatrici impotenti di fenomeni come il terrorismo? Cambia il loro modo di percepire sé stessi e gli altri? Cambiano i rapporti sociali e le più intime convinzioni religiose? Una grande inchiesta che coinvolge le autorità religiose, gli esperti e l’opinione pubblica
«Tutte le religioni sono potenzialmente pericolose se guidate da integralisti», spiega un lettore che ha partecipato al sondaggio effettuato da Gazzetta d’Alba per indagare il mutamento del concetto di fede anche alla luce dei recenti attacchi terroristici di Parigi e Bruxelles. Aggiunge l’intervistato: «Non è pericolosa la religione in sé, ma la sua strumentalizzazione».
Anche Anna, 42enne albese, ammette: «Dopo gli attentati la mia fede non è mutata, ma il sentimento di paura sì. Ho due figlie, una di 16 e l’altra di 18 anni: non voglio che in questi mesi di terrore prendano l’aereo, girino l’Europa. Anche se so che la probabilità di incorrere in un attentato è minima, preferisco non rischiare. Più volte ho pregato perché non succeda nulla di male. Per quanto riguarda la religione in sé, non ritengo di appartenere a un credo specifico. Penso che fede significhi credere in qualcosa di superiore, che ci accomuna tutti a prescindere dall’appartenenza religiosa. Perciò l’islam non è pericoloso di per sé, ma per le vicissitudini politico-economiche a esso sottese, ai suoi rapporti con l’occidente».
È come se la fede e la religione, nello spiegare gli eventi terroristici e nella reazione a essi, assumesse un ruolo ambivalente: da una parte funzionerebbe come capro espiatorio, identificata cioè come la dimensione colpevole del fenomeno terroristico perché in grado di giustificarlo. Dall’altra diventa una sorta di stabilizzatore psicologico, difesa dalla paura e rifugio contro l’impotenza.
Matteo Viberti