LE STORIE Esistono quarantene precoci, iniziate molto prima della pandemia. Parlano di una popolazione che non è quella chiusa nelle ville di campagna, che può godersi i “ritmi più lenti” o la comodità domestica. O che può vivere la pausa come “pretesto per prendersi una vacanza”. In Alba esiste una popolazione fragile, come nel resto del Paese. È fragile in un periodo di emergenza così come lo era durante il corso “ordinario” degli eventi. Abbiamo raccolto alcune delle loro versioni della parola quarantena. Storie incontrate o raccontate dai lettori.
Sabato 22 marzo un uomo di origini africane, che preferisce rimanere anonimo, cammina per una via del centro. Ha quasi 70 anni. È diretto al supermercato. In mano tiene alcuni libri. Dice che sono testi religiosi. Spiega: «Faccio attenzione, esco il minimo indispensabile. Non ho casa da molto tempo. A volte trovo ospitalità in strutture del territorio, altre volte dormo da amici. Per me è sempre emergenza sanitaria. Non potendo mangiare alimenti di qualità né fare visite private, ogni giorno il mio corpo rischia di prendere infezioni, di incontrare batteri o virus che mi possono uccidere. Mangio male e dormo poco. Eppure sono vivo. Perché? Dio ha voluto così. Non tutto è spiegabile». Lo incontriamo quando i numeri dei contagi continuano a salire. Lui non sembra curarsi di queste statistiche nel “modo” in cui tutti se ne curano. «Prego perché il dolore del mondo si attenui, ma il mondo sta solo restituendo il torto a lui commesso».
Incontriamo poi un ragazzo di 29 anni. È fermo su una panchina, guarda le poche macchine transitare. Sembra felice. Chiacchieriamo. Alla fine condivide un pezzo si sé: «Ho sempre sofferto d’ansia, ipocondria, paura di morire. Da quando c’è questo regime di quarantena però è come se fossi migliorato dalla malattia. Meno pensieri cattivi. Mi sono chiesto: perché mai? Non trovavo risposta. Poi ho capito. Ora tutti hanno paura. La mia non era malattia psichiatrica, ma eccesso di solitudine. Nessuno sembrava prendermi sul serio. Ora mi sento meno solo. Le mie emozioni sono comprese. Mi ha stupito questo cambiamento».
Il terzo personaggio incontrato è Sara. Chiede un quaderno al tabaccaio. Ha poco più di trent’anni. Dice: «Il quaderno serve per scrivere poesie. Poi le posto sui social. Fin da giovanissima ho scritto. Mi sono sempre rifugiata lì. Però nessuno mi capiva e venivo presa in giro. Oggi grazie ai social ho ottenuto una rivincita: chi prima ironizzava sul mio “essere poetessa” adesso ha bisogno della mia sensibilità. Mette “mi piace” e condivide i miei scritti. È come se le persone stessero tornando a qualcosa di molto antico, che non solo avevano dimenticato ma non avevano mai vissuto, eppure quel qualcosa era sempre stato lì, non aspettava altro che una forte emozione collettiva per tornare su».
Di fronte ai cancelli di una grande fabbrica c’è Renato, 56 anni. Indossa una mascherina e ha il viso stanco. Due grandi occhiaie. Dice: «Sono operaio di linea e mi sento in trappola. I titolari non vogliono chiudere. È semplice avidità. Vogliono continuare a fatturare. Di fatto mettono in pericolo le nostre vite. E pensare che se utilizzassero un centesimo dei loro patrimoni privati riuscirebbero a pagarci gli stipendi per sei mesi». E aggiunge: «Ci fanno sentire liberi, in verità siamo schiavi».
Immaginiamo, alla fine della ricerca, quanti altri personaggi si nascondono negli appartamenti di una città chiusa, silenziosa. Sono quarantene iniziate da molto tempo. È il popolo dei nascosti, di chi non trova spazio sui palcoscenici, di chi in silenzio resiste alle narrazioni che dominano il mondo, chi con la propria diversità tiene in piedi pilastri senza i quali cadrebbero le fondamenta più invisibili, e forse le più preziose, di ciò che ci lega ad altre anime e alla terra.
Matteo Viberti