La pandemia fa emergere gli eroi, i don Abbondio e gli irresponsabili

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Il settimo anniversario di pontificato di papa Francesco è coinciso con un momento molto drammatico. Non più solo per l’Italia, ma per il mondo intero. Una vera pandemia da coronavirus, nell’arco di poche settimane, ha sconvolto la vita di ciascuno di noi, delle nostre famiglie, delle comunità ecclesiali. Insomma, dell’intera popolazione. Tutti costretti a modificare agenda di vita e di lavoro, annullando o rinviando impegni, appuntamenti e viaggi. Tutti segregati nelle abitazioni. Aziende che chiudono o si riorganizzano con il lavoro da casa, il cosiddetto smart working. Divieto assoluto di contatti esterni, con eccezione per i servizi di vitale necessità, dalle farmacie all’approvvigionamento di cibo.

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La Chiesa si adegua alle norme anti-contagio

Anche la Chiesa s’è dovuta adeguare, sospendendo ogni celebrazione liturgica. La Messa festiva in particolare. Un’adesione non del tutto convinta, a dire il vero. Che ha suscitato non poche difficoltà e insofferenze in molti preti, per la privazione dell’Eucaristia e dei sacramenti ai fedeli. Ma i provvedimenti del Governo, sempre più restrittivi col diffondersi del virus, hanno avuto la meglio. La priorità ‒ hanno scritto i vescovi italiani ‒ è «contribuire alla tutela della salute pubblica». Ma la serrata totale è durata ben poco. Il primo a ripensarci è stato lo stesso Francesco. In un’omelia a Santa Marta ha detto: «Le misure drastiche non sempre sono buone».

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Non è, certo, un invito a remare contro le istituzioni. Tanto meno a polemizzare. In un momento così delicato occorre la convergenza di tutti. È, invece, l’affermazione di un principio essenziale, che riguarda la “cura delle anime”. Alla pari, per lo meno, dell’interesse sanitario o alimentare. Soprattutto per una Chiesa “ospedale da campo”, come l’ha sempre definita. Una preoccupazione pastorale, la sua, per evitare anche la smobilitazione del clero. O, meglio, un invito a sacerdoti e parroci a stare “in mezzo al gregge”. A trovare nuove forme di vicinanza e assistenza, soprattutto nei confronti di anziani e ammalati, bisognosi di conforto spirituale.

È lo stesso sentire espresso da Enzo Bianchi su La stampa del 16 marzo scorso. Il fondatore di Bose ha parlato di «un’epidemia della paura», che sembra aver travolto la Chiesa. La quale s’è limitata a sospendere le celebrazioni, per evitare assembramenti, senza porsi quelle «preoccupazioni pastorali e cristiane dettate dal Vangelo: compassione, urgenza della cura e della vicinanza ai malati e alle persone in condizioni di fragilità, messaggio della speranza cristiana per chi è vittima di questa pestilenza». Concludendo con un interrogativo: «Se la Chiesa non sa essere presente alla nascita e alla morte delle persone, come potrà esserlo nella loro vita?».

Si richiedeva, senz’altro, una diversa testimonianza della Chiesa. Con più coraggio e inventiva. Quella prossimità, ad esempio, che tanti preti hanno saputo trovare grazie a Facebook e ai social, collegandosi in streaming per Messe, rosari e preghiere.  Allo stesso modo della Messa a Santa Marta, celebrata da papa Francesco, trasmessa in diretta sui siti vaticani. «Se la Chiesa in Italia ha sempre il respiro del suo popolo», ha detto il cardinale Bassetti, presidente della Cei, «molto si deve ai suoi preti». E alla loro dedizione: a Bergamo, una delle province più colpite dal virus, venti preti sono stati contagiati, e sei sono deceduti.

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Ai tempi del Covid-19, purtroppo, i morti crescono ogni giorno di più. In attesa del fatidico picco e sperando nell’inversione di tendenza. Oggi, si muore nella totale solitudine, senza il conforto delle persone care. Senza il calore di una mano amica per un’estrema carezza. Un tristissimo commiato, senza funerali. Nel bolognese, un’anziana signora è stata seppellita a insaputa dei parenti: le pompe funebri s’erano dimenticate d’avvisare la famiglia. Forse, per stress da eccesso di lavoro. Tutto di fretta, e scene che si ripetono dappertutto: benedizione alla bara sulla soglia di chiesa, pochi parenti ad assistere, ben distanziati l’uno dall’altro, una preghiera e la salma avviata velocemente al cimitero. Un grave deficit di pietà umana e cristiana. I defunti, ormai, solo numeri per statistiche da virus. O, al massimo, per necrologi sui giornali.

Chiuso anche il santuario di Lourdes

Per la prima volta nella sua storia, il 17 marzo scorso, il santuario di Lourdes ha chiuso. Il luogo simbolo per i malati è inaccessibile. «Anche se viviamo in un posto straordinario come Lourdes», ha detto il rettore, monsignor Olivier Ribadeau Dumas, «non pensiamo di essere cittadini al di sopra delle regole». Per evitare che chiese e santuari si trasformino in potenziali focolai di trasmissione del virus. «Ma la Madonna non va in quarantena», ha commentato l’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, «resta sempre attenta a ciascuno. La fede rimane al di là del luogo». E ha, però, aggiunto: «La chiusura del santuario di Lourdes è un segno che ci porta a dire quanto dobbiamo stare attenti. Non dobbiamo essere don Abbondio, ma nemmeno sconsiderati. Lourdes è un luogo di guarigione, ma proprio per questo occorre stare attenti che non diventi un luogo di contagio».

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Papa Francesco, da parte sua, dopo aver rinunciato agli annuali esercizi spirituali ad Ariccia (per indisposizione da raffreddore), per la prima volta nei sette anni di pontificato, ha annullato ogni contatto con i fedeli. Niente piazza San Pietro per l’Angelus, niente aula Paolo VI per le udienze del mercoledì. Riti della Settimana santa e Messa di Pasqua a porte chiuse, da seguire in streaming. «Mi sento in gabbia», ha esordito al suo primo Angelus in video. E il suo pensiero è andato subito «a tutti gli ammalati col virus, che soffrono la malattia e a tanti che soffrono incertezze sulle proprie malattie». Non tralasciando di ringraziare di cuore «il personale ausiliare, i medici, gli infermieri, i volontari che, in questo momento difficile, sono accanto alle persone che soffrono».

L’Italia riscopre il senso di comunità

Sentimenti, questi, in piena sintonia con il “senso di comunità” che il popolo italiano sa trovare nelle difficoltà. Plaudendo a chi, in tempi di contagio, fa il suo dovere negli ospedali, con abnegazione, fino al rischio della propria vita. Medici e infermieri, i “nuovi eroi” dei nostri giorni, ai quali va il tributo d’ammirazione e riconoscenza, espresso su improvvisati cartelli e lenzuola, appesi dappertutto. Elogi che si estendono a tutta la rete solidale che s’è messa in moto: dalla spesa per gli anziani, doppiamente reclusi in casa, alle donazioni di sangue, alla raccolta fondi per gli ospedali, alle mense della Caritas, ai volontari che portano cibo e medicine a poveri e barboni, quelli che una casa, dove restare chiusi, non ce l’hanno.

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Tutti uniti dalla stessa speranza: “Ce la faremo”; “Andrà tutto bene”. Come si legge, ovunque, negli striscioni con i colori dell’arcobaleno. Il “popolo dei balconi” si ritrova, ogni giorno, per gli applausi a medici e infermieri, a cantare l’inno nazionale, a esporre bandiere tricolori, ad accendere un cero o altra luce la sera. E il suono delle campane, nel silenzio spettrale di piazze vuote, rimbalza di campanile in campanile, a ricordare che la Chiesa c’è. È accanto a chi soffre. E chiama tutti a raccolta, credenti e non credenti, per una preghiera. Come il “rosario per il Paese”, nella sera del 19 marzo, festa di san Giuseppe.

I furbetti della quarantena

Altruismo, preghiera e solidarietà a coprire l’irresponsabilità dei “furbetti della quarantena”. Quelli che, volutamente, ignorano disposizioni e divieti. A migliaia, ad esempio, prendendo d’assalto la stazione Garibaldi di Milano, sono fuggiti al Sud, non appena avuto sentore di una chiusura totale della Lombardia. (A onor del vero, non sono stati da meno anche i francesi, fuggendo precipitosamente da Parigi. “Le monde entier est un pays”: tutto il mondo è paese!). Un gruppo di preghiera, in Campania, s’è riunito per una celebrazione “clandestina”, risultando poi infettati quasi tutti, avendo bevuto dallo stesso calice. Un parroco, in provincia di Varese, per due domeniche consecutive ha fatto entrare di nascosto i fedeli per la Messa, chiudendo le porte a chiave. È scattata la denuncia.

Per non dire, infine, di quanti si sono scoperti, all’improvviso, podisti. O di quanti, in giornate di sole primaverile, hanno affollato le spiagge o si sono recati in campagna ad arrostire carni alla griglia. O sono andati su affollatissime piste a sciare. Confondendo, come ha detto Jovanotti, l’emergenza per vacanza. Irresponsabili, inconsapevoli dei danni che arrecano alla collettività, facilitando la diffusione del virus.

Sette anni di pontificato per papa Francesco

L’emergenza Covid-19 ha sconvolto calendari nazionali e internazionali. Dallo sport alla cultura. I sette anni di inizio pontificato di Francesco sono passati in sordina. Come la sua recente esortazione apostolica, Querida Amazonia, caricata impropriamente di eccessive attese sull’ordinazione dei viri probati e sul sacerdozio delle donne. Nessuna commemorazione, il 13 marzo scorso, a ricordo di quando il mondo intero fu sorpreso dall’elezione di un cardinale argentino, schivo e poco noto al grande pubblico, che i cardinali sono andati a prendere “quasi alla fine del mondo”. Un Papa che ha avviato, nella Chiesa, una vera rivoluzione, dopo anni di scandali, dalla pedofilia del clero ai corvi di Vatileaks, culminati con le dimissioni di Benedetto XVI.

Sette anni di entusiasmi popolari, fin dalla sua prima apparizione dalla loggia di San Pietro. Un apprezzamento generale per un rinnovato stile magisteriale. Poco formale, ma fortemente evangelico. Anni che profumano di “primavera” conciliare. Un cristianesimo del Vangelo della misericordia, più che una fede identitaria, da cristiani del campanile. Ma, al tempo stesso, non sono mancati contrasti e veleni contro la sua Chiesa “in uscita”. Una fronda sempre più scoperta e accanita, sui giornali e all’interno della stessa curia romana.

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Neppure Covid-19 ha placato il livore dei detrattori. L’hanno accusato d’essersi barricato in Vaticano per la fifa del contagio. E, parodiando le sue stesse espressioni, hanno scritto: «Niente più ponti, ma muri e molto alti, invalicabili, per nascondersi. Si dicevano rivoluzionari e si sono svelati tanti pavidi don Abbondio». Ma Francesco li ha subito smentiti, recandosi a piedi in una Roma deserta, a pregare la Vergine Salus populi romani a Santa Maria Maggiore e poi il Crocifisso “miracoloso” a San Marcello al Corso. Un gesto simbolico per tenere desta la speranza per tutti. E per incoraggiare quei sacerdoti «che hanno capito bene che, in tempi di pandemia, non si deve fare il don Abbondio».

Il detto africano: Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo

Coronavirus segnerà profondamente la nostra vita. Qualcosa dovrà pur cambiare.  C’è un detto, una sorta di proverbio, che gli africani applicano al nostro stile di vita occidentale, segnato dal vortice della fretta e dei molteplici impegni: «Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo». Con altre parole, ce l’ha ricordato pure papa Francesco: «In questi giorni difficili», ha detto in un’intervista a Repubblica, «possiamo ritrovare i piccoli gesti concreti di vicinanza e concretezza verso le persone che sono a noi più vicine, una carezza ai nostri nonni, un bacio ai nostri bambini, alle persone che amiamo. Sono gesti importanti, decisivi. Se viviamo questi giorni così, non saranno sprecati».

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Fermiamo, allora, l’orologio. E scopriamo il valore del tempo. Quello degli affetti, quello della riflessione e della preghiera.

Antonio Sciortino, già direttore di Famiglia Cristiana e attualmente direttore di Vita Pastorale

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