«Ascoltiamo i racconti dei malati e diamo loro speranza»

«Ascoltiamo i racconti dei malati e diamo loro speranza»

LA STORIA  La chiameremo Speranza perché, se nel nome di una persona è scritta anche parte del suo destino, questa giovane infermiera, che opera nel reparto Covid-1 del San Lazzaro di Alba, oltre alle sue mansioni specifiche in ambito sanitario, riesce anche a dare motivi di speranza a chi sta lottando contro questo nemico invisibile.

Lei, prima di questa pandemia, con una ventina di sanitari (tra medici, infermieri e Oss) operava al pronto soccorso del Santo Spirito di Bra. Poi, in una giornata qualunque di lavoro, la notizia improvvisa della chiusura del pronto soccorso (che ha smesso di essere operativo lo scorso 20 marzo, ndr) e il trasferimento al San Lazzaro.

Speranza, che vive in un paesino nelle vicinanze di Bra da sola con il suo gatto, non ha avuto dubbi, fin dall’inizio: «Chiederò di essere affidata a uno dei quattro reparti Covid di quel nosocomio». Una breve formazione, poi l’inizio di questa nuova avventura professionale, destinata a lasciare un segno indelebile nella sua carriera. Racconta: «I nostri turni in reparto iniziano dopo il rito della vestizione, complesso e articolato. Il protocollo ci chiede di indossare la tuta, due calzari, due paia di guanti, il cappellino, la mascherina, gli occhiali e la visiera. Poi, così equipaggiati, cominciamo il nostro lavoro a fianco degli ammalati di Covid-19, che in questo reparto sono tutti sottoposti alla ventilazione forzata, quella che si ottiene con il casco». Il suo racconto si ferma un attimo. Probabilmente, nella sua mente, stanno passando i volti e le storie di tanti contagiati che lei, come tutte le colleghe e i colleghi, in queste settimane hanno avvicinato, per aiutarli a superare questi momenti difficilissimi. E, probabilmente, anche i volti di quelli che non ce l’hanno fatta.

Continua: «Tutti gli ammalati hanno paura. E, allo stesso tempo, soffrono tanto per l’isolamento e la solitudine. Con ciascuno di loro diventa normale condividere un pezzo di strada, sentire i loro racconti e dare loro speranza. Spesso qualcuno ti prende una mano e te la stringe per un po’, pensando magari di avere un contatto con un suo familiare. Noi cerchiamo di dare molto a loro, ma loro ci restituiscono davvero tanto».

Poi conclude: «Quando siamo in servizio non abbiamo il cellulare, strumento che potrebbe veicolare il virus. Puntualmente, sono i medici del reparto che danno informazioni sia ai pazienti sia ai loro familiari, che non avrebbero altro modo per mettersi in contatto con i propri cari ammalati. Io credo che, prima di arrivare in fondo al tunnel, ci vorrà ancora molto tempo. E allora, per accorciare il numero di questi giorni, ognuno deve fare la sua parte: al momento ci è chiesto di stare a casa, proprio per evitare che i contagi continuino a incrementarsi».

v.m.

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