Avere l’ufficio in casa non sempre va bene

Lo studio promosso da Consulenti del lavoro evidenzia i problemi che possono sorgere nella propria abitazione, dove spesso bisogna conciliare anche l’assistenza ai figli

I giovani potrebbero essere la vera risorsa della ripresa

LAVORO Conciliare sicurezza, mantenimento del posto di lavoro e, al contempo, continuare a produrre, è stata ed è tuttora una delle sfide maggiori imposte del periodo pandemico. Con l’insorgere dei primi casi di Covid-19, a marzo dello scorso anno, il Governo aveva stabilito la chiusura delle attività non essenziali. Il Dpcm del 25 marzo 2020 aveva concesso la possibilità di aprire in deroga, tramite domanda da inviare ai prefetti, per le attività volte ad assicurare la continuità della filiera produttiva di beni e servizi essenziali e per le produzioni a ciclo continuo che, se interrotte, avrebbero costituito un danno e un rischio maggiore per la sicurezza e la salute.

Sarebbe tuttavia da valutare l’applicazione effettiva del provvedimento, dato che queste due categorie sono ampie e in esse, a seconda delle valutazioni, possono essere state incluse attività non strettamente essenziali. C’è da chiedersi se questo non abbia contribuito a creare un così alto indice di contagi, in un periodo in cui l’attenzione mediatica era focalizzata su chi usciva fuori casa, a debita distanza da tutti, per una boccata momentanea d’aria.

Ove possibile, comunque, è stato applicato il telelavoro, soprattutto per i lavoratori intellettuali. Uno studio di Consulenti del lavoro, società che raggruppa i professionisti del settore, ha portato a galla i problemi dei ‘‘lavoratori agili’’: per loro, infatti, sono aumentati stress e rischi di malattie professionali. Con il telelavoro, infatti, il rischio è di non trovarsi in un ambiente lavorativo adatto: nelle case delle persone possono non esserci sedie ergonomiche, scrivanie e computer. I costi di energia elettrica e manutenzione ricadono totalmente sul dipendente e, allo stesso tempo, non sono pagati da chi è il titolare.

Sembra che a soffrire di più siano state le donne: a una divisione del lavoro domestico ancora poco equamente ripartita, si è aggiunto il pesante compito di assistere i figli nella didattica a distanza. Gli spazi domestici molte volte sono insufficienti per lavorare in serenità.

L’inadeguatezza dei locali domestici è rilevata nel 48,3 per cento del campione

Avere l’ufficio in casa non sempre va beneLo smart working, disciplinato dalla legge 81 del 22 maggio 2017, è una «modalità di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante un accordo tra dipendente e datore di lavoro». Nasce quindi quattro anni fa come strumento per aumentare la produttività, ma trova applicazione effettiva soltanto con l’inizio dell’ondata pandemica.

Inoltre, secondo la citata legge, dev’essere «entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva». Nella realtà, questa condizione è stata disattesa in molte occasioni, proprio perché il dipendente, perdendo il vincolo del luogo e dell’orario di lavoro, finisce in molti casi per ridurre ad ambiente lavorativo ogni spazio familiare e ogni ora della giornata.

Lo studio di Consulenti del lavoro citato in precedenza ha evidenziato che, nel corso del 2020, grazie allo smart working si sono ridotti sensibilmente gli infortuni in itinere, ossia quelli occorsi durante il tragitto casa-lavoro. Rispetto al 2019, le denunce sono scese da più di centomila a circa 62mila. Mentre le morti passano dal 28,1 per cento del 2019 al 16,8 per cento del 2020.

Chi, invece, presenta problemi nell’affrontare il telelavoro è il 48,3 per cento, a causa soprattutto dell’inadeguatezza delle postazioni domestiche. Lo stress da lavoro è aumentato a causa della dilatazione dei tempi, dell’ansia da prestazione, dell’indebolimento delle relazioni aziendali. Il 49,7 per cento dei lavoratori a distanza riferisce anche problemi nelle relazioni con colleghi, capi, clienti, il 47 per cento si sente marginalizzato rispetto alle dinamiche delle organizzazioni e il 40 per cento circa inizia a creare disaffezione verso il lavoro. Il 33 per cento degli intervistati, infine, crede che il lavoro a distanza penalizzi la carriera e la crescita personale.

Prevenzione Covid-19 nel 98 per cento delle imprese

Sempre dallo studio svolto nel mese di aprile da Consulenti del lavoro è emerso che il 98 per cento delle imprese ha effettuato degli investimenti per poter garantire le misure minime per la prevenzione del rischio Covid-19 tra i propri dipendenti. Tra le spese effettuate troviamo quelle relative agli interventi di sanificazione e di distribuzione delle mascherine. Nel campione di aziende preso in esame, l’ente ha rilevato che il 94,7 per cento di esse ha informato i dipendenti sui rischi collegati al coronavirus, il 90,4 ha fornito loro una preparazione adeguata volta a contenere il numero dei contagi, il 70 per cento ha effettuato delle rotazioni tra il personale e ha promosso gli ingressi e le uscite scaglionati per ridurre il rischio di assembramenti, il 52 per cento ha messo a disposizione test diagnostici, mentre il 46,2 ha esonerato i lavoratori più fragili.

In parziale contrasto con questi dati, l’Inail ha segnalato che, al 31 marzo 2021, il numero  totale di denunce di infortunio da Covid-19 ammontano a 165.528, concentrate per la maggior parte nel settore sanitario (67,5 per cento), di cui 551 con esito mortale. Un dato che è molto elevato, considerando l’impatto sul totale (dei dati complessivi sugli infortuni lavorativi nel 2020 ne parliamo sopra, nda): i contagi causati dal virus hanno costituito, nel 2020, il 23,6 per cento delle denunce e hanno causato il 33,3 per cento delle morti.

Aumenta la mortalità con meno infortuni sul lavoro

Nel 2020, secondo i dati dell’Inail, ci sono state 87mila denunce di infortunio sul lavoro in meno rispetto al 2019, per un totale di 554.340. Sono però cresciute quelle che hanno avuto esito mortale, passate da 1.089 a 1.270. Ciò si spiega con i contagi da Covid-19 nei luoghi di lavoro. Con il 38,5 per cento i tecnici della salute sono stati il gruppo più colpito, seguiti da operatori sociosanitari (19 per cento), medici (8,8), operatori socioassistenziali (7,2), personale sanitario non qualificato (4,8), impiegati amministrativi (4,2), addetti alle pulizie (2,2), conducenti di veicoli (1,2) e dirigenti amministrativi e sanitari (0,9).

Per Palermo (Cgil Cuneo) «il telelavoro è da regolamentare»

Tra gli uffici che hanno messo i propri dipendenti a lavorare da casa ci sono anche gli enti pubblici. Secondo Gaspare Palermo della Cgil funzione pubblica di Cuneo, «molti hanno iniziato lo smart working senza avere una regolamentazione precisa. Addirittura il Governo, nelle circolari emesse, ha richiesto ai dipendenti pubblici di usare dispositivi propri e non dell’Amministrazione».

In questo caso, l’aumento della produttività richiesto dalla legge rischia di ridursi a uno slogan demagogico da sbandierare per parlare agli umori della gente. Diventa difficile, a esempio, nell’ufficio anagrafe di un piccolo Comune, ricercare questi obiettivi: scopo primario dev’essere garantire il servizio pubblico.

Il problema maggiore, secondo Palermo, ha riguardato le donne lavoratrici con figli: «Noi della Cgil, insieme alla Cisl e alla Uil, abbiamo criticato i provvedimenti del Governo che dicevano, in parole povere, o vai in smart working o usi i congedi parentali. Il lavoro da casa non è e non deve essere considerato un periodo feriale, poiché i dipendenti faticano molto di più. Banalmente, anche dividere il tavolo con i figli che seguono le lezioni significa che l’ambiente non è ottimale».

Secondo il sindacalista, il precedente Governo ha comunque sviluppato positivamente questa moderna modalità di lavoro: «In una situazione drammatica, il ministro per la pubblica amministrazione Fabiana Dadone è riuscita ad attuare un rinnovamento importante. Abbiamo però contestato la mancanza di volontà di rapportarsi con le organizzazioni sindacali, ancora in attesa del rinnovo del contratto nazionale. La strada da seguire va comunque verso un aumento dello smart working anche in tempi normali. Il Conte I ha fissato l’obiettivo al 50 per cento. Proprio in questi giorni, abbiamo siglato un importante accordo col Comune di Cuneo sul tema».

Le esperienze difficili di una mamma alle prese con l’impegno a distanza

Alice ha 42 anni ed è originaria di un Comune del Roero. Dal 2008 lavora in un’azienda albese come impiegata contabile. «Dopo la laurea in economia ho svolto alcuni tirocini all’estero. Tramite una conoscente sono venuta a sapere di quest’opportunità lavorativa e sono tornata nella mia zona». Gli anni trascorrono e la donna forma una sua famiglia con il marito e due figli.

Come tutti, anche lei deve fare i conti con l’insorgere della pandemia: «All’inizio ero molto spaventata, nessuno sapeva come muoversi e abbiamo continuato a lavorare in ufficio per alcuni giorni. In seguito è stato attivato il telelavoro e mi sono sentita più tranquilla. Si è trattato, però, di una sensazione che è svanita rapidamente. Sono subentrate ansia e preoccupazione, unite a un forte livello di stress poiché dovevo occuparmi anche dei miei figli nell’orario normalmente dedicato al lavoro».

L’apprensione è aumentata pensando al marito operaio in una fabbrica della zona. «Alla notizia della sua positività al Covid-19 ho avuto un crollo. Sono andata avanti per mesi dormendo pochissimo. Ho anche pensato di licenziarmi, ma per pagare le rate del mutuo abbiamo bisogno di lavorare entrambi».

Dopo un anno esatto, Alice è tornata a lavorare normalmente in ufficio. «Ho tirato un sospiro di sollievo, tornare a lavorare in un luogo fisico mi ha dato una sensazione di ritorno alla normalità che non si può descrivere. Ora sono più serena»

Davide Barile

Banner Gazzetta d'Alba