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Coltivare tartufo bianco, l’esperienza della Francia

A condurre le ricerche è Claude Murat dell'Inrae

Coltivare tartufo bianco, l'esperienza della Francia
I ricercatori Claude Murat e Cyrille Bach.

L’INTERVISTA Grande scalpore destò lo scorso anno la notizia della raccolta di alcuni esemplari di Tuber magnatum pico in una tartufaia in Francia, in un’area dove mai erano cresciuti prima. A condurre le ricerche era (ed è) Claude Murat dell’Inrae (Institut national de la recherche agronomique), che ha nel proprio curriculum anche un dottorato di ricerca a Torino. La sua area di studio comprende le interazioni tra microrganismi e piante dal punto di vista genomico, genetico ed ecologico.

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Un esemplare di tartufo bianco raccolto il 24 novembre scorso.

Quale percorso ha portato alla coltivazione del tartufo bianco?
«L’Inrae nel 1999 iniziò a collaborare con i vivai Robin per produrre piante micorrizzate con Tuber magnatum. Nel 2015, in Nuova Aquitania, è stata impiantata una tartufaia di bianco d’Alba, in un’area dove mai il fungo ipogeo era stato raccolto. In un appezzamento di meno di duemila metri quadrati sono state messe a dimora cinquantadue querce della specie Quercus pubescens. Nel 2019 abbiamo raccolto i primi tre tartufi e l’anno successivo quattro, per un peso di circa cento grammi. Come Inrae abbiamo accertato che si trattasse di Tuber magnatum attraverso l’esame del Dna e i dati sono stati pubblicati in un articolo scientifico su Mychorriza. Nella stagione appena terminata, gli esemplari raccolti sono stati circa venticinque, per un peso che si aggira sui novecento grammi. Il venti per cento degli alberi ha prodotto, in questi anni, almeno una volta. L’area dove sorge la tartufaia è circondata da campi di grano e mais. In Francia, in precedenza, il Tuber magnatum cresceva solo nell’Est».

Ci sono altre tartufaie attualmente in produzione?
«Quella della Nuova Aquitania appartiene a un privato che ha scelto di collaborare
con noi. Altrove, o il bianco cresce anche spontaneamente ed è difficile determinare a cosa sia dovuto il ritrovamento, o semplicemente non tutti hanno piacere di comunicare il buon esito o meno».

Come va gestita una tartufaia e quanto potrebbe rendere come produzione?
«Per il bianco si eseguono gli stessi interventi previsti per il Tuber melanosporum. Pacciamatura, lavorazioni del suolo, potature e, soprattutto, irrigazione. Comparato con altre colture, comunque, l’acqua da apportare è molto minore. Dati sulla produzione li abbiamo, per ora, solo sul nero. In Francia ci sono circa quarantamila ettari coltivati, per un totale di circa quaranta o cinquanta tonnellate. Dipende molto dalle zone: dalle parti di Avignone, dove il nero si è sempre cavato, ci sono seimila ettari di tartufaie e il raccolto medio si aggira su uno o due chilogrammi per ettaro. Cento chilometri più a nord, dove non c’è questa tradizione, ci sono impianti per circa seicento ettari: qui la produzione arriva a dieci chilogrammi. In alcuni contesti si può arrivare anche a cinquanta chilogrammi, ma è difficile prevederlo. Seguendo i metodi colturali da noi proposti garantiamo la cavatura dei tartufi, ma sarebbe disonesto dare dei numeri certi. Il bianco, teoricamente, potrebbe comportarsi come il nero. La tartufaia inizia a produrre all’incirca dopo quattro o cinque anni ed entra nel pieno della maturità
nel decimo».

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Una micorriza di Tuber magnatum.

Perché allora si inizia solo ora a parlare di coltivazione del bianco?
«Come diceva giustamente il professor Pacioni al vostro giornale, in passato vivaisti poco onesti o preparati hanno spacciato piante micorrizate con Tuber magnatum
mentre invece si trattava di bianchetti. Avere micorrizazioni di qualità è il primo passo. Non sappiamo ancora perché, ma il bianco produce meno micorrize rispetto ad altre
specie. Se, per esempio, tirassi fuori dal terreno un astone micorrizato con scorzone, si noterebbero a occhio nudo le micorrize sulle radici. Il fatto di crearne di meno fa parte delle caratteristiche della specie. Quindi, l’intero processo va eseguito in laboratorio ed è più lungo. Osservandola al microscopio, la micorriza di Tuber magnatum appare verdastra e leopardata. Per il momento, con il vivaio Robin produciamo solo Quercus pubescens e carpino (Carpinus betulus). Invece i tentativi fatti con pioppo e salice non sono riusciti».

E in Italia?
«La reticenza alla coltivazione deriva probabilmente da esperimenti malriusciti del passato. In un territorio come il vostro, dove il Tuber magnatum cresce naturalmente, credo sia saggio seguire due direzioni: accanto all’impianto di tartufaie, coltura rispettosa dell’ambiente, vanno preservati e recuperati i boschi naturali, effettuando interventi come lo sfoltimento degli alberi e il taglio dell’erba. In questo modo, anche in Piemonte, sarà possibile riattivare zone già vocate per la produzione. Per un’azienda agricola, comunque, lanciarsi al cento per cento nella tartuficoltura può nascondere dei rischi, legati all’andamento incerto della produzione. In alcune zone della Spagna, le tartufaie sono state impiantate in migliaia e migliaia di ettari dove si poteva coltivare null’altro: sono state la salvezza del territorio».

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Lagotto romagnolo alla ricerca del Tuber magnatum nella tartufaia della Nuova Aquitania.

Il tartufo bianco raccolto ad Alba resta il migliore?
«Ho amici ad Alba, ad Acqualagna e da altre parti, per cui non posso esprimere un parere soggettivo. Esistono però delle differenze aromatiche tra i tartufi delle varie zone: il profumo è dato dall’interazione del fungo ipogeo con i batteri e i lieviti del terreno. Ci sono anche variabilità genetiche, ma non così grandi da poterne riconoscere la zona di provenienza in base alle analisi. Un dato interessante riguarda però il tartufo nero. Questo studio non l’abbiamo ancora pubblicato, ma analizzando quattrocento Tuber melanosporum provenienti da tutta Europa abbiamo notato che l’unico che si differenzi geneticamente è quello raccolto a cavallo tra Piemonte e Liguria».

Davide Barile

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