Razza Piemontese, oro rosso che soffre la crisi

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ALLEVAMENTO L’aumento delle materie prime e dei combustibili si riflette inevitabilmente sul settore alimentare. E se alle difficoltà economiche si aggiunge il conflitto combattuto nella terra granaio d’Europa, ecco che interi comparti iniziano a intravedere un futuro poco roseo e prendono provvedimenti.

È il caso dei bovini di razza Piemontese, presente in circa 4.300 stalle con più di 280mila capi, concentrati per il sessanta per cento nella Granda. Secondo quanto denunciato da Silvio Chionetti, vicedirettore di Cia Cuneo, «gli allevatori di Piemontese stanno riducendo il numero di animali, vendendo quelli non ancora pronti per il macello. Ciò è dovuto ai costi insostenibili di produzione, aumentati del 57 per cento. La situazione sta peggiorando e la siccità ha comportato una riduzione nella produzione di foraggi. Inoltre, l’attuale condizione economica porta a una contrazione dei consumi. Il rischio è legato alla possibile chiusura di diverse aziende e il conseguente abbandono di terre marginali da parte degli agricoltori». Tra le possibili soluzioni proposte, Chionetti individua «la proroga degli sgravi fiscali sul gasolio agricolo, per ora previsti solo fino a marzo; l’aumento dei crediti di imposta e una campagna di sensibilizzazione al consumo di carne locale». Parere simile è espresso dalla Coldiretti, che giudica comunque positivo lo stanziamento da 220 milioni che il Governo ha concesso in favore degli allevamenti nazionali.

Centro riconosciuto come la capitale dei bovini di razza Piemontese, a Carrù si tiene la fiera del bue grasso e hanno sede i consorzi Coalvi (Consorzio di tutela della razza piemontese) e Anaborapi (Associazione nazionale allevatori dei bovini di razza Piemontese).

Dalla prima ci dicono: «Effettivamente c’è stato un aumento molto forte del prezzo delle materie prime. Fortunatamente, gli allevatori della Piemontese hanno una buona dotazione di terra rispetto agli animali che allevano. Devono comunque rifornirsi anche sul mercato, soprattutto per comprare la soia, alimento necessario per il fabbisogno proteico, e il mais. L’andamento siccitoso ha portato a una minore produzione di fieno: anche se il clima ha permesso che seccasse ottimamente, ne è uscito poco. Finora le scorte sono bastate, ma per prevedere quanto questo inciderà sui conti aziendali è ancora presto. Se il costo delle materie prime è aumentato fino al sessanta per cento, l’incremento del valore del bestiame è stato contenuto e non può compensare questa differenza: per i maschi parliamo di circa il sette per cento in più, mentre per le femmine è rimasto stabile. Oltretutto, se si volesse aumentare il prezzo di vendita al consumatore, pochi sarebbero disposti a comprare ancora la nostra carne, visto il momento di ristrettezze economiche».

Per far fronte alle difficoltà, «non sappiamo dire se abbattere i capi per ridurre i bisogni di mangiatoia sia la strategia utile: così facendo, si perde anche il potenziale guadagno. Andrebbero concessi sostegni alla produzione o all’acquisto da parte dei clienti. Come consorzio abbiamo il compito di valorizzare e pubblicizzare la carne in ogni occasione possibile: lo stiamo facendo anche all’estero».

Il direttore dell’Anaborapi, Andrea Quaglino, commenta: «Rappresentiamo gli allevatori della Fassona ma non siamo un sindacato. Abbiamo circa 180 vitelli e una trentina tra i migliori tori riproduttori: ci occupiamo del confezionamento del liquido seminale da dare a chi lo richiede per la fecondazione. In tutto, commercializziamo circa 170mila dosi l’anno. Quanto detto riguardo alle difficoltà corrisponde al vero, pur avendo una buona autoproduzione le aziende non riescono a coprire tutto. In un anno siamo passati, per i mangimi, da 28 euro al quintale a 51. Anche se si prevedessero aiuti, se le navi non si dovessero muovere dall’Ucraina i cereali non arriverebbero comunque. E occorre prestare attenzione agli speculatori, che spuntano nei momenti di crisi».

 Davide Barile

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