Scrivere su Twitter fa perdere il posto?

Il Garante della privacy: "Attenzione a pubblicare le foto dei figli sui social"

DIRITTO Fra on-line e off-line non c’è differenza: lo dimostra l’impatto che i post sui social network possono avere sul mondo del lavoro. Per fare chiarezza abbiamo contattato Laura Vaschetto, responsabile dell’Ufficio vertenze legali di Alba della Cgil di Cuneo.

Nella vostra esperienza ci sono stati sul territorio casi di persone licenziate per il comportamento on-line?

«Non mi sono ancora capitati licenziamenti di persone che per il loro comportamento sui social siano state licenziate; invece ci sono casi di contestazioni disciplinari per lavoratori che hanno pubblicato foto mentre erano in malattia o in infortunio e si trovavano fuori dalla propria abitazione, oppure che hanno espresso in rete critiche su datori o responsabili».

Quali tipi di contenuti possono essere considerati “pericolosi” per i dipendenti?

«Innanzitutto le frasi ingiuriose nei confronti del datore di lavoro o dei superiori. La premessa è che di per sé manifestare contrarietà al datore di lavoro non è considerato pericoloso e anche la nostra Costituzione, all’articolo 21, riconosce al cittadino il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. In ambito lavorativo, tale diritto è riaffermato dall’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori. L’esercizio del diritto di critica non è però incondizionato, ma risente di limiti, come il dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro; questo va inteso in senso ampio, posto che non attiene solo agli aspetti patrimoniali del rapporto, ma anche ai più generali canoni di correttezza e buona fede nel rapporto tra le parti. Per il Tribunale di Busto Arsizio sono stati sufficienti i pochi caratteri di un tweet per ledere l’immagine del datore di lavoro e “rendere esplicito un atteggiamento di disprezzo verso l’azienda e i suoi amministratori”. La conseguenza è stata l’accertamento della legittimità del licenziamento».

Anche fotografarsi durante  i periodi di malattia è rischioso

Laura Vaschetto, come si formano le prove in questo contesto?

«Nella pronuncia del Tribunale di Busto Arsizio si è affermato che se il lavoratore contesta la paternità dei post sostenendo di aver lasciato incustoditi smartphone e tablet, deve anche dimostrare l’accesso abusivo da parte di terzi. In sostanza lo screenshot, cioè la fotografia dello schermo, dei contenuti pubblicati sui social basta a dimostrarne la paternità, almeno quando le frasi sono verosimili ed eventualmente rafforzate da testimoni. Il datore di lavoro deve venire a conoscenza delle ingiurie direttamente e non da terzi».

Quello che si “posta” è considerato pubblico?

«Secondo una recente pronuncia della Corte di appello di Torino i social sono da considerarsi luoghi pubblici e non serve rendere privato il profilo, impostandolo come visibile soltanto a una cerchia ristretta di utenti. Non vi sarebbe pertanto differenza fra profilo pubblico e privato, perché anche un profilo privato può essere rilanciato e diffuso da ciascuno dei contatti dell’utente, rendendo illimitato il numero dei destinatari dei messaggi pubblicati».

Quali altri tipi di contenuti espongono a rischi?

«Ad esempio se sono in malattia e pubblico foto che dimostrano che non sono in casa, in quanto la legge sulla malattia impone l’obbligo di reperibilità in certi orari: alcune sentenze prevedono che il datore in questi casi può procedere al licenziamento. Questi deve dimostrare di esserne venuto a conoscenza direttamente e non tramite altri, ma anche in questo caso ci sono solo sentenze e non la legge».

E se il dipendente usa i social mentre è al lavoro?

«Il lavoratore durante l’orario di lavoro ha l’obbligo di svolgere la sua mansione e se non lo fa – che stia tutto il tempo on-line oppure legga il giornale – può essere licenziato».

Adriana Riccomagno.

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