Gabriella Caramore ospite del festival Profondo umano (INTERVISTA)

Gabriella Caramore ospite del festival Profondo umano (INTERVISTA)
© Giorgio Boato

L’INTERVISTA Il festival culturale Profondo umano proposto da Intonando vuole parlare di spiritualità, di interiore e di poesia, nel tentativo di recuperare elementi segregati in un’epoca storica attraversata dalla paura. Il primo appuntamento sarà venerdì 16 settembre alle 21 nella chiesa di San Domenico ad Alba, con la teologa e scrittrice Antonietta Potente e la saggista Gabriella Caramore.

Le due autrici parleranno della profondità dell’animo umano nell’incontro intitolato “La fatica della luce”. È possibile acquistare i biglietti alla librerie San Paolo o Milton, ad Alba, o richiedere informazioni aggiuntive visitando il sito Web www.profondoumano.it. Gabriella Caramore è saggista e conduttrice radiofonica; è stata collaboratrice di Avvenire. Il suo ultimo libro è La parola Dio, Einaudi.

Le elezioni politiche sono vicine, ma sembra che nessuno parli di interiore, di spiritualità come punto di partenza per risolvere i problemi materiali. Caramore, cosa ne pensa? È possibile introdurre un pensiero diverso rispetto alle logiche dominanti di tipo economico e materialista?

«Direi che forse non occorre parlare di interiorità o di spiritualità per governare un Paese, ma piuttosto di responsabilità, di giustizia, di legalità, di uguaglianza di opportunità, di cittadinanza, eccetera. La vita delle persone non si distingue in vita spirituale e vita materiale. L’essere umano è tutto questo insieme. Non ci può essere giustizia se non c’è rispetto per la persona, se non si cura la sua dignità, se non si costruiscono le opportunità primarie per una vita che sia dignitosa, e questo naturalmente va assieme allo sviluppo culturale, sociale, responsabile degli esseri umani. Le logiche dominanti si battono sul terreno facendo scelte responsabili, coraggiose, non timorose di proclamare quell’“obbligo verso l’umanità” che la Carta dei diritti dell’uomo aveva cominciato a elaborare. Ma certo occorre la fatica dell’intelligenza, la continua rielaborazione della coscienza, la messa in discussione dei propri presupposti. Occorre rimettere al centro il bene della polis – che ormai è il nostro mondo – e non la propria miope visione mentale».

Per lei che cosa significa abitare poeticamente il mondo e come fare per recuperare quella parte di noi poetica e troppo spesso perduta, sia a livello individuale che sociale e politico?

«Bisogna fare attenzione al termine poetico perché si possono rischiare equivoci. Poetico non equivale a sentimentale, bello, armonioso. Poesia proviene da una radice che indica il fare dell’umano. E dunque il creare, il saper mettere assieme, connettere, stabilire legami, magari invisibili, tra tutte le cose. “Abitare poeticamente la terra” come dice un frammento attribuito a Hölderlin, che però associava al poeticamente, cioè in maniera creativa e in contatto con l’essenza delle cose, anche la capacità di realizzare valori, cose utili. Come si fa? Certo insistendo sulla scuola, sull’educazione in senso profondo e globale, sulla cultura, cioè coltivazione del legame tra gli esseri e le cose».

Secondo lei la pandemia quali conseguenze interiori – in positivo o anche in negativo – ha provocato nelle persone?

«La pandemia ci ha messo di fronte alla nostra incapacità di utilizzare le informazioni che possediamo, di riuscire a organizzare una salute territoriale responsabile, di cambiare il volto della medicina, di essere in grado di affrontare emergenze. Poi sì, c’è stata molta solidarietà, molta dedizione, molto sacrificio. Ma infinitamente di più si potrebbe fare con un atteggiamento più costantemente responsabile. Il mio intervento verterà sulla fatica della luce, a partire dalla divisione in luce e tenebre che attraversa tutto il testo biblico. La nostra cultura ci ha sempre abituato a dividere in maniera troppo manichea la notte e il giorno. In realtà nella Bibbia, come nella vita, gioca un grande ruolo il chiaroscuro cangiante, la luminosità della brace che riesce a resistere allo spegnimento». 

Matteo Viberti

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