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Oltralpe si prova a coltivare il tartufo bianco

TARTUFO E SCIENZA Sono passati due anni dall’annuncio della raccolta di tartufi bianchi in una tartufaia francese in una zona dove del tuber magnatum Pico mai si erano avute notizie. Il ricercatore che segue la tartufaia in questione, localizzata nella regione della Nuova Aquitania, è Claude Murat, della sede di Nancy dell’Institut national de la recherche agronomique (Inrae). Dopo aver svolto un dottorato a Torino («studiavamo i dati di una vecchia tartufaia di tuber a Montemagno», racconta) ha proseguito le sue ricerche sulle micorrize, il legame simbiotico tra il fungo e la radice della pianta. Spiega Murat: «Dal 1999 l’Inrae collabora con i vivai Robin per produrre piante micorrizzate con tuber magnatum Pico, tutte certificate tramite analisi morfologiche e del Dna. La tartufaia in questione è stata impiantata nel 2015 dove, in precedenza, il tartufo bianco non c’era: in Francia cresce spontaneamente solo nella parte orientale, vicino all’Italia. In un’area inferiore ai duemila metri quadrati, circondata da grano e mais, sono stati piantati 52 esemplari di quercus pubescens. Tre tartufi sono stati trovati nel 2019; l’anno successivo quattro, per un peso di circa cento grammi. Abbiamo effettuato l’esame del Dna per essere certi si trattasse di tuber magnatum Pico e abbiamo pubblicato lo studio con i risultati sulla rivista scientifica Mychorriza. Nel 2021 sono stati cavati venticinque tartufi, circa novecento grammi».

Oltralpe si prova a coltivare il tartufo bianco
Claude Murat, ricercatore Inrae con il primo tartufo bianco raccolto nella tartufaia sperimentale.

Nell’annata appena conclusa, invece?

«Anche in Francia la stagione non è stata ottimale, ha piovuto molto poco. Sono comunque stati raccolti quattordici esemplari, tutti molto piccoli, per un totale di duecento grammi. La produzione, pur in una stagione climaticamente difficile, continua ancora».

L’irrigazione non è bastata?

«Tramite delle sonde abbiamo notato che l’acqua irrigua bagnava il suolo soltanto nei primi cinque centimetri. Forse, per salvare i tartufi presenti, non è stato sufficiente. Non lo possiamo dimostrare, ma faremo delle prove aumentando la quantità di acqua. Il tuber si sviluppa più in profondità, intorno ai dieci centimetri. Le tartufaie che producono tartufo nero entrano in piena produzione quando hanno circa dieci anni: si può arrivare anche a diverse decine di chilogrammi per ettaro. Se potrà accadere lo stesso per il bianco, lo vedremo dai prossimi risultati. Molti dei tartufi cavati lo scorso anno sono stati usati, sminuzzati e miscelati con acqua, per la semina delle spore, attraverso alcuni buchi attorno all’albero, per portarle il più possibile a contatto con le radici».

Ci sono altri esempi di tartufaie?

«Sembra ce ne siano almeno altre due, ma l’unica di cui disponiamo di dati certi è questa, dal momento che il proprietario ha scelto di collaborare con l’Inrae».

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L’investimento per una tartufaia oggi può risultare conveniente?

«Se il suolo ha le caratteristiche giuste per il tuber magnatum Pico e l’esposizione è ottimale può essere un investimento interessante. Spesso arriva gente con molti soldi che desidera impiantare dieci o venti ettari. Consigliamo di iniziare con una decina di piante e, se i risultati sono buoni, allargare l’impianto. Rispetto alle piante micorrizate con tuber melanosporum il costo è maggiore, perché il bianco fatica di più a creare delle micorrize. È una caratteristica della specie. L’intero processo va eseguito in laboratorio ed è più lungo. In passato, vivaisti disonesti hanno venduto piante con micorrizazioni di bassa qualità o micorrizate con specie di minor pregio. Con il passare degli anni avremo più dati a disposizione. Dalle vostre parti si può anche pensare al recupero di boschi a vocazione tartufigena, partendo dall’analisi del suolo per vedere se effettivamente ci sono ancora delle spore, sfoltendo la vegetazione e praticando altri interventi. I quali, del resto, erano fatti dai contadini in passato, quando il bosco era fonte di legna».

Suolo e temperatura: quali sono i parametri ottimali per il tuber magnatum?

«Il bianco lo troviamo maggiormente in suoli sabbiosi e limosi. Di solito l’argilla presente non supera il venti per cento, mentre il calcare non va oltre il trenta. Il Ph è compreso tra 7.5 e 8.5 e il suolo deve essere poroso. In questo caso, tale condizione può essere favorita dalle lavorazioni. L’acqua è importante, c’è bisogno di ambienti umidi. I terreni devono essere a nord o in fondovalle. La temperatura del suolo deve essere intorno ai 20 gradi. Per fare un esempio, in estate, in Italia o in Francia, può facilmente salire a 30. Anche in questo caso, il parametro si può tenere sotto controllo con delle pacciamature od ombreggiature. Non patisce le temperature basse, ma come tutte le colture con il suolo gelato si danneggia. La profondità gioca a suo favore».

Le caratteristiche del tuber magnatum Pico sono uguali dappertutto?

«Cambia il profumo, dato dall’interazione del fungo ipogeo con i batteri e i lieviti del terreno, e ci sono differenze nel Dna, ma le si possono trovare anche tra esemplari della stessa tartufaia. Non si riesce, quindi, a stabilire la zona di provenienza».

Davide Barile

 

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