8 marzo, «Ricorderò il compleanno di mia figlia in un bunker»

8 marzo, «Ricorderò il compleanno di mia figlia in un bunker»

8 MARZO Secondo l’ultimo aggiornamento delle Nazioni Unite, sono circa otto milioni i rifugiati ucraini che hanno trovato accoglienza in Europa dall’inizio della guerra scatenata da Vladimir Putin. Su una popolazione di 43 milioni di persone, significa che uno su cinque ha scelto di partire. Un esodo iniziato fin dai primi giorni dell’invasione russa, per poi raggiungere il picco tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo di un anno fa. Erano i giorni delle infinite colonne di donne, bambini e anziani diretti verso il confine con la Polonia e la Romania, con il freddo e la neve. Solo per l’Italia, si parla di circa 169mila persone accolte e aiutate.

Hanna Tymofieieva, 36 anni, se n’è andata dall’Ucraina in auto. Ha guidato da sola attraverso mezza Europa, con impressi negli occhi i mezzi militari e le bombe che fino a quel momento aveva visto solo nei film. Insieme a lei, le sue due figlie: Ksenia, che ha 14 anni, e Kira, che ne ha 10. Il destino l’ha portata in Italia, a Roddi: tramite una serie di contatti, da quel momento è ospitata dalla famiglia Borsa, in un appartamento indipendente. La incontriamo al Cpia, il centro provinciale per l’istruzione degli adulti di corso Michele Coppino, dove frequenta le lezioni di italiano avanzato.

«Da dove posso iniziare? Forse dal fatto che, quando ho lasciato l’Ucraina, pensavo di dover restare in Italia non più di tre mesi. Ed eccomi qui, a distanza di un anno», spiega Hanna. La sua città si chiama Cherkasy, nel centro del Paese; si trova a circa 200 chilometri da Kiev. Se si digita il nome su Internet, si scopre che è stata più volte al centro di attacchi e che ha cambiato del tutto volto a causa della guerra.

«Sono un’ingegnera civile e amo ancora molto il mio lavoro. Mio marito, Victor, lavorava nel campo enologico, gestendo vinerie. Da un giorno all’altro, ci siamo ritrovati a svuotare le bottiglie e a costruire molotov, per difendere la nostra città. Se ci penso, mi sembra ancora un brutto sogno», dice, forzando un sorriso. «Ricorderò per sempre il giorno in cui è scoppiata la guerra: abbiamo percepito il rumore di un bombardamento, senza renderci bene conto di che cosa stesse accadendo. Poco dopo, si è sentita una seconda esplosione: da giorni si parlava della guerra e quei rumori ne erano la conferma. Poi, una ventina di minuti dopo, è arrivato l’annuncio ufficiale da parte delle autorità cittadine».

La prima preoccupazione di Hanna è stata per Ksenia, studentessa a Kiev: «Un parente, che viveva nella capitale, ci ha assicurati che l’avrebbe riportata a casa. Ma, dopo alcune ore, il suo telefono squillava a vuoto. Senza pensarci un attimo, io e mio marito siamo partiti verso la città: alla fine, siamo riusciti a metterci in contatto con loro e ci siamo diretti a Cherkasy». Di questo viaggio, le rimarrà per sempre nella mente un’immagine: «A un certo punto mi sono voltata di colpo: dal finestrino dell’automobile, ho visto un’esplosione, il segno tangibile che la guerra era iniziata davvero».

Anche nella provincia, nel frattempo, tutto era cambiato: «La vita si era fermata, da tutti i punti di vista. Il 28 febbraio è il compleanno di Ksenia: un anno fa, lo abbiamo festeggiato in un bunker, sotto le bombe, con le strade invase dai carri armati. È stata questa la spinta che mi ha convinta a partire, d’accordo con mio marito, per permettere alle nostre figlie di provare a tornare a vivere».

Hanna e le sue figlie sono arrivate nelle Langhe senza conoscere l’italiano e senza punti di riferimento: «La famiglia che ci ha ospitate è stata il nostro faro, perché ci ha permesso di tornare a sperare. Grazie a loro, che hanno un’attività di costruzioni, ho anche ripreso a lavorare in un settore vicino al mio. Certo, nulla è stato facile, per me e per le ragazze, soprattutto per la maggiore. Viviamo il nostro presente in Italia, ma la mente va sempre in Ucraina».

La donna, per il futuro, sogna di tornare a casa: «Lo vorrei tanto, ma so che in questo momento è prematuro. Aspetto sempre le chiamate di Victor, ma ci sono giorni in cui non si fa sentire: se manca l’elettricità o la rete Internet, non può contattarci e viviamo con l’ansia».

Francesca Pinaffo

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