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Se le giovani buttano il velo

L’INTERVISTA In questi giorni i media di tutto il mondo parlano di centinaia di casi di intossicazioni di ragazze avvenuti tra i banchi di alcune scuole femminili, con le prime morti. È successo a Qom, una delle principali città sante dell’Iran a sud di Teheran, centro degli studi religiosi, ma il fenomeno pare ben più ampio. Lo stesso viceministro della salute Younes Panahi ha dichiarato che questi atti brutali ai danni delle studentesse iraniane sono avvenuti perché «alcuni individui vogliono che tutte le scuole, soprattutto quelle femminili, siano chiuse».

«L’avvelenamento delle studentesse è la vendetta del regime terrorista contro le coraggiose donne che hanno sfidato l’obbligo dell’hijab, il velo», ha invece twittato l’attivista iraniana emigrata Masih Alinejad. Proprio le scuole, infatti, sono state teatro di numerosi scioperi e proteste negli ultimi mesi. Una reazione a cui ha dato il via la morte della giovane Mahsa Amini che lo scorso settembre, durante una vacanza con la sua famiglia a Teheran, è stata uccisa dalla Polizia morale mentre era in custodia per aver indossato l’hijab in modo sbagliato.

Se le giovani buttano il velo
Farian Sabahi, un volto noto per la sua conoscenza dei Paesi orientali, con il libro ispirato alla sua storia

«Donna, vita, libertà» è oggi uno degli slogan scritti e urlati dalle alunne che si strappano il velo protestando contro il regime oppressivo, ma è proprio durante queste manifestazioni che altre due ragazze, entrambe sedicenni, hanno perso la vita, sono Sarina Esmailzadeh e Nika Shakarami. Eppure, la risposta delle autorità iraniane è sempre la stessa: questi decessi non hanno nulla a che vedere con la violenza del regime, si tratta di incidenti o di suicidi.

Per capire che cosa stia avvenendo in Iran abbiamo intervistato Farian Sabahi, ricercatrice senior di storia contemporanea presso l’Università dell’Insubria, dove insegna relazioni internazionali dell’Europa orientale e del Medio Oriente.

Figlia di un iraniano e di una piemontese, ha scritto molti libri sull’Iran e ha realizzato come regista diversi cortometraggi. Uno dei suoi volumi più famosi è Noi donne di Teheran, di cui è appena stata ripubblicata una versione aggiornata, un racconto in prima persona su che cosa significhi essere bambine, ragazze, donne in un Paese complesso, pieno di potenzialità e contraddizioni.

Sabahi, in che modo differiscono le proteste odierne in Iran da quelle precedenti? Quale molla ha fatto scattare la morte di Mahsa Amini?

«Le difficoltà delle iraniane sono un tema quanto mai attuale, alla luce delle proteste innescate dalla morte violenta di Mahsa Amini. Si tratta delle manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze. Le cause del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica sono molteplici. Non è l’obbligo del velo di per sé, ma in primis l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente. La violenza sistematica delle Forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione, allontanandosi sempre più dai suoi giovani e dal suo popolo».

Le proteste si concentrano sul velo, ma quali sono gli altri obblighi a cui una donna iraniana deve sottomettersi?

«Il foulard che copre i capelli (ma mai il viso) è la punta dell’iceberg di un sistema che maltratta le donne. I diritti delle iraniane sono sempre stati un percorso a ostacoli. In tribunale la testimonianza di una donna vale la metà di un uomo. Il risarcimento in caso di ferimento o morte violenta è del cinquanta percento. La figlia eredita metà quota rispetto al fratello. Non è facile ottenere il divorzio e nemmeno la custodia dei figli minori. Per recarsi all’estero, la donna sposata ha bisogno del permesso scritto del marito. A questa normativa si aggiunge, dal 1979, un severo codice di abbigliamento: pantaloni lunghi e ampi, soprabito, foulard a coprire i capelli».

Il rifiuto del velo può essere il primo passo verso la libertà delle donne iraniane?

«In Iran due terzi delle matricole all’università sono ragazze, il 70 per cento degli ingegneri sono donne. Sono istruite, ma sono discriminate dal punto di vista giuridico e hanno l’obbligo di coprire con il foulard i capelli. Il velo è un simbolo ma, soprattutto, un obbligo imposto dall’ayatollah Khomeini all’indomani dell’istituzione della Repubblica, nel 1979. Insieme allo slogan «Marg bar Amrika!» («Morte all’America») è uno dei pilastri ideologici del sistema politico. Abolirne l’obbligo vorrebbe dire eliminare una colonna portante di tutta la costruzione ideologica su cui si regge il potere degli ayatollah e, di questi tempi, soprattutto dei pasdaran (le guardie rivoluzionarie). L’obbligo del velo sta alla Repubblica islamica come il muro di Berlino stava al comunismo: tolta questa imposizione, potrebbe crollare tutto un sistema politico».

Bisogna parlare molto di Iran e chiedere perché migliaia di persone sono finite in carcere o condannate a morte

Farian Sabahi, perché le rivolte sono difficili da sedare per l’attuale regime iraniano?

«Le proteste sono pervasive: hanno luogo prevalentemente nella città ma, a differenza del passato, non sono concentrate in quartieri o strade particolari e questo sta rendendo più complicata la repressione. Le iraniane e gli iraniani scendono in strada e non solo affinché il velo sia una libera scelta. Contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione galoppante. In prima linea ci sono i giovani, anche adolescenti: non vedono prospettive, sanno che i loro sogni verranno spenti da un regime autoritario. Le proteste non hanno leader e sono prive di coordinamento. Se in apparenza queste due caratteristiche possono apparire debolezze, in realtà si stanno rivelando punti di forza, perché non c’è una leadership da decapitare».

Le proteste paiono avere perso intensità: che cosa potrebbe succedere?

«L’aumento dei salari dei dipendenti della pubblica amministrazione e anche delle Forze armate, deciso dal Parlamento iraniano lo scorso ottobre per far fronte al carovita, avrebbe potuto spaccare il fronte della protesta, ma non è stato così. A fare rientrare il dissenso poteva essere la repressione, ma arresti e impiccagioni non hanno fermato la piazza. In questi mesi i vertici di Teheran non hanno messo in atto quelle riforme strutturali necessarie a migliorare il quadro economico e a soddisfare le istanze di maggiori diritti e di rappresentazione politica. In questi ultimi giorni forse le proteste hanno apparentemente perso di intensità, ma alla prima occasione la gente tornerà in strada a protestare. Con il passare dei mesi, forse degli anni, qualcosa dovrà cambiare».

Che cosa pensa dell’idea che la condizione delle donne all’interno di ogni Paese sia solo una questione di culture? Qual è la diversità tra differenze culturali e oppressione?

«Credo fermamente che i diritti umani siano universali; sono contraria a ogni forma di relativismo culturale. Il relativismo culturale ha fatto peraltro arrabbiare anche molti sardi nel 2007, quando il Tribunale della cittadina di Buckeburg, vicino Hannover, aveva concesso uno sconto di pena e le attenuanti etniche e culturali a un cameriere sardo che per tre settimane aveva tenuto segregata l’ex fidanzata, l’aveva picchiata, violentata, torturata e umiliata».

Quale idea si è fatta dell’espulsione dell’Iran dalla Commissione Onu sullo status delle donne?

«Una decisione simbolica. Non è però tagliando i ponti, allontanando, che si risolvono i problemi».

Pensa che nei media italiani ci sia la tendenza a strumentalizzare il racconto delle rivolte iraniane?

«In parte, sì: fin dall’inizio è stato, per alcuni media, un modo per ritrarre le donne iraniane non come vittime di un regime ma di una cultura. Durante un evento un’esponente della Lega ha avuto il cattivo gusto di definire la cultura persiana una subcultura. Evidentemente, la signora non aveva mai sentito recitare i versi di Omar Khayyam, Ferdousi, Hafez; non aveva letto il bestseller Suvashun di Simin Daneshvar, la decana della letteratura persiana femminile; non aveva visto i lungometraggi di Rakhshan Bani Etemad e nemmeno di Firouzeh Khosrovani. Prima di giudicare, sarebbe opportuno documentarsi».

Che cosa può fare la società occidentale? Che cosa non sta facendo?

«Tenere accesi i riflettori, fare in modo che di Iran si continui a parlare. Facendo pressione affinché la politica italiana ed europea chieda conto alle autorità iraniane delle migliaia di persone in carcere, dei tanti condannati a morte, delle persone torturate e uccise nella repressione di regime. Bisogna continuare a raccontare l’Iran, perché soltanto mostrando le pellicole cinematografiche di Firouzeh Khosrovani avremo la speranza che questa regista, che ha studiato a Milano e attualmente è libera su cauzione in attesa di giudizio, possa riavere il passaporto che le è stato confiscato dalle autorità iraniane».

Giorgia De Carolis

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