Se la Malora ha il volto dei braccianti africani

Tornano i lavoratori delle vigne: la loro vita resta all’addiaccio 2

MIGRANTI Quando, la scorsa settimana, ci è stata segnalata la presenza di lavoratori agricoli che bivaccano lungo il Tanaro – e in altri punti della città – ci siamo interrogati sul bisogno di tornare a raccontare ciò che ripetiamo da anni. Lo abbiamo fatto, di volta in volta, con punti di vista diversi: in primo luogo, quello dei braccianti stranieri reclutati da uno dei sistemi economici più floridi, quelli dei vini di Langhe e Roero, per essere pagati cinque o sei euro all’ora, con contratti del tutto o in parte fasulli. Abbiamo raccolto le voci degli imprenditori, che hanno cercato di spiegare meccanismi complessi e consolidati, tra pseudocooperative e intermediari. Abbiamo fornito analisi di esperti e numeri, come quelli forniti dal consorzio del Barolo: su circa quattromila braccianti agricoli attivi sulle nostre colline, duemila sarebbero gestiti da intermediari. E tra questi, un migliaio sarebbero a rischio di sfruttamento. Abbiamo dato spazio a tavoli di confronto, progetti, tentativi avviati, fondi in arrivo, nuovi modelli. Tutto inutile, solo parole.

Il problema continua a esistere, così evidente da bloccare lo stomaco. Stessi luoghi, stesse storie, stessa disperazione stridente con l’Alba che è riuscita a passare dalla Malora all’Unesco. Se Beppe Fenoglio fosse ancora in vita, potrebbe ascoltare, lungo le sponde del fiume che amava tanto, le voci di Lamin, Mohammed, Abou e altri lavoratori ventenni che passano le notti per terra, per svegliarsi alle sei e salire in vigna. Come il suo Agostino del 1954, il ragazzo alle prese con la durezza della vita nelle Langhe, emblema di un’epoca oggi lontana. Così ci siamo detti che, se il problema continua a esistere, è necessario per il giornale raccontarlo, anche per l’ennesima volta.

Il “grand hotel Tanaro”, come lo abbiamo chiamato nel 2021, ha riaperto le porte. Questa volta ci siamo stati di sera, dopo le venti. Protetti dalle mura fatiscenti di un edificio abbandonato, a pochi metri da corso Nino Bixio, incontriamo i primi due abitanti. Di giorno, sono impegnati in collina, dove sono iniziate le potature. «Quando il “padrone” ha bisogno, mi chiama», spiega uno dei braccianti. Sono entrambi di origine africana e sono arrivati al parco Tanaro circa un mese fa. Dicono di guadagnare sei euro all’ora, senza contratto. Il loro rifugio è una vecchia tenda di recupero, che sono riusciti a risollevare, con l’aggiunta di un telo di plastica. Da un’apertura, si vedono coperte, scarpe, zaini, vestiti e qualche parvenza di normalità, come un pacchetto di biscotti. Davanti all’ingresso, c’è una scopa, che stona con tutto ciò che si nota attorno: rifiuti e sporcizia. Non ci sono servizi igienici: è un luogo che, negli anni, ha accolto altri disperati. Nell’aria, si respira un forte odore. Per uscire dal capannone, bisogna farsi strada tra piante e vetri rotti.

L’insediamento dista cinque minuti da un altro rifugio improvvisato, questa volta immerso nella boscaglia, prospiciente la riva. Dopo la siccità degli ultimi mesi, fa quasi impressione vedere da vicino l’acqua marrone e sentire il rumore della corrente. Sulla griglia posizionata sopra al fuoco, al centro di un’area delimitata da quattro tronchi, un ragazzo sta arrostendo due patate. In un sacchetto, appoggiato per terra, c’è un hamburger. Non ci sono tende o capanne, ma solo un insieme di cartoni, con sopra un vecchio materasso e coperte. «Ho lavorato in vigna per qualche giorno. Adesso sono in attesa: vivo qui da due settimane e spero di andarmene presto», dice, mentre continua a controllare le patate sul fuoco. Insieme a lui, vive anche un altro migrante. «L’altro giorno abbiamo conosciuto un altro africano, che non parla italiano e che forse vive dalle parti del cimitero. Magari una sera lo accompagno alla Caritas». A quanto pare, almeno qui, c’è solidarietà.

Ad Alba, dalla stazione ferroviaria fino alla periferia, dove c’è chi dorme nelle baracche

Tornano i lavoratori delle vigne: la loro vita resta all’addiaccio 1
I resti degli accampamenti al parco Tanaro

Adesso ci spostiamo in auto alla stazione dei treni di Alba, accompagnati da volontari, presi al cuore come noi da queste storie inimmaginabili. Siamo quasi in centro ma di sera non c’è molto movimento, se non chi si siede sul muretto dei giardini con un gelato in mano, acquistato alla pasticceria di fronte. Per questo, si notano subito due ragazzi con uno zaino in spalla e una coperta sotto braccio. Dopo aver cercato di rompere la loro diffidenza, parlando un po’, ci confermano di essere lavoratori agricoli. «Ho il contratto per un mese. Ho dormito in strada per due notti, ma ora sono ospite da amici senegalesi, miei connazionali», spiega uno dei due, mentre l’altro annuisce. Sulla paga per il lavoro, dicono di non avere contezza della cifra esatta che viene loro assegnata. Se ne vanno a piedi, scomparendo tra le strade.

Ci allontaniamo dal centro, fino alla zona della Moretta. Nei palazzi, le luci degli appartamenti sono accese, perché si è fatto buio. Arriviamo a una zona in cui si trovano degli orti, uno vicino all’altro. È un reticolo di sentieri, a metà tra l’area urbana e la collina. Qui incontriamo tre giovani, anche loro nordafricani. Vivono con lavori occasionali, ciò che riescono a trovare per racimolare qualcosa. In questo momento, uno dice di lavare i piatti e fare le pulizie in un ristorante, mentre gli altri due sono occupati nelle vigne. L’unico che parla bene l’italiano è originario del Marocco: «Qui il lavoro non manca, anche se non è continuo e i guadagni sono bassi. Ma è meglio di niente e bisogna accontentarsi. In questo momento, inizia a esserci richiesta per le vigne, per un mese o due», spiega.

Gli chiediamo se ha un contratto: «È difficile essere messi in regola», risponde. Dicono di dormire proprio nella zona degli orti, forse in qualche baracca: «Per non essere scoperti, non lasciamo tracce: al mattino, facciamo sparire tutto».  

Francesca Pinaffo

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