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Abitare il piemontese: la parola di questa settimana è Ricordin

Ricordino: cartoncino-ricordo che ritrae la fotografia di una persona scomparsa

Abitare il piemontese: la parola della settimana è Possacafé 27

ABITARE IL PIEMONTESE La morte fa parte della vita. Una delle paure più grandi è il rischio di essere dimenticati. Per questo nella ritualità umana esiste il ricordin (pronuncia: ricurdìn), facilmente traducibile con ricordino: un cartoncino che ritrae la fotografia della persona defunta, insieme a qualche parola solenne ed eventualmente le informazioni sulla Messa di trigesima. La lingua piemontese, che ha sempre saputo dissacrare, annovera a questo proposito un proverbio inconfondibilmente sabaudo. S’ët veuȓi fete ricordé, làssa tanti debit da paghé (se vuoi farti ricordare, lascia molti debiti da pagare).

Un sinonimo piemontese di morire è tiȓé ij cordin (tirare i cordini) oppure tiȓé ij caussèt (tirare i calcetti). Quando un infermo era in fin di vita gli si legavano ai piedi due cordini con dei campanellini, cosicché il segnale del trapasso lo avrebbe dato il moribondo nell’ultimo istante di vita, magari dopo giorni di sofferenza, con una scalciata istintiva, provocando il suono dei campanellini. Tiȓé ij caussèt per qualcuno significa anche tirare i calzini poiché un tempo il beccamorto mordeva l’alluce del defunto per constatare che fosse davvero passato a migliori vita. Nel fare ciò tirava i calzini del malcapitato. Da qui il detto ironico e che cerca di sfatare il trapasso.

Tra le cause di decesso troviamo diagnosi più o meno accurate: ciapàje ‘n coȓp (gli è preso un colpo), mancàje ‘ȓ fià (gli è mancato il fiato), fino all’ossimoro desviàsse mòrt (si è svegliato morto) rafforzato dal miraggio sta lì a ȓ’è a mòrt pì bela (quella è la morte più bella). Non meno interessanti sono le reazioni di chi apprende il decesso di un conoscente. C’è chi pensa e poi esclama la data dell’ultimo loro incontro, incredulo che sia passato a miglior vita, quasi come se lo pensasse immortale: ma… ȓ’heu vist-ȓo ȓ’ater dì! (l’ho visto l’altro giorno), a seguire con bonòm! oppure povȓ matòt o ancora ròbe neiȓe. Quando poi il defunto è reduce da una lunga e perniciosa malattia non mancherà la sentenza empatica bèica…o ȓ’ha piantà lì ‘d tribilé (guarda…ha smesso di soffrire).

Anche di fronte alla salma si sentono frasi probabilmente necessarie alla ritualità: smìja ch’o gȓigna (sembra che sorrida), beica s’a ȓ’è bela (guarda com’è bella), fino alla dichiarazione più netta, identitaria, dignitosa: o ȓ’è chiel (è proprio lui), come per una necessità di riconoscimento. Se poi si crea un silenzio imbarazzante, ci sono alcune espressioni d’emergenza mimiche e linguistiche utili a temporeggiare, quali: eh, beica… (eh, guarda…), a ȓ’è ndà paȓej (è andata così), a j’ëndava nen (non ci voleva), a ȓ’ha fane ‘n bel schers (ci ha fatto un bello scherzo).

Per la morte, la civiltà contadina piemontese nutre profondo rispetto. Per un piemontese anche il peggior nemico merita la dignità di una sepoltura decorosa, dal momento che questo è esanime non c’è nulla da aggiungere. Non che non si possa parlare male di una persona defunta, anzi, questo avviene tranquillamente, ma quando lo si fa non bisogna dimenticare la formula linguistica obbligatoria che anticipa l’argomento e permette di dire le peggio cose. Parland-ne da viv (parlandone da vivo) e da lì in poi tutto è concesso.

La morte, insomma, fa parte della vita. Scriveva così Cesare Pavese nell’autunno del 1949: A quei tempi non mi capacitavo cosa fosse questo crescere. Credevo fosse solamente fare delle cose difficili, come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell’uva, manovrare la trebbiatrice, non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire. Per questo il genitore di un bambino, specie in passato quando la morte non era un tabù come oggi, quando doveva recarsi in camera mortuaria per fare visita a un caro defunto, alla domanda porti anche tuo figlio? la risposta era: veuj ch’o voga (voglio che veda). Non è cinismo, è saper crescere.

Paolo Tibaldi

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