Parole per un anno: GIOVANI

Piemonte, lavoro, giovani, futuro

DOVE SONO FINITI I RAGAZZI

La parola “giovani” compare sempre più spesso sui giornali italiani, nei dibattiti, nelle campagne elettorali, il più delle volte associata a soprannomi di ogni tipo. Sembra che questa parola sia diventata il campo da gioco su cui si misurano pensatori e politici. E l’idea della giovinezza, dell’essere giovane, si trasforma di volta in volta in vizio o in virtù, a seconda di chi sta tifando sugli spalti.

Ma c’è un problema. A queste partite non assiste nessuno. Soprattutto, non assistono i giovani. Non sono partite tra squadre avverse, ma tra tanti singoli giocatori, tutti contro tutti, in un guazzabuglio indistinto sul campo. Tutti presi dall’ansia di dribblare, di scartarsi, di trovare la definizione giusta, l’analisi sociologica adeguata che illumini la strada. Ma nessuno si chiede mai: perché in campo non ci sono squadre under 30? Dov’è finita la sfida generazionale, il movimento? Insomma, dove sono finiti i giovani?

Il più lontano possibile, probabilmente. Perché il loro essere giovani oggi pare essere un problema. Un “dramma” a cui tutti cercano di dare una soluzione, tranne loro. Perché loro in campo non ci sono. Forse non hanno voglia di giocare, o forse sono gli altri che li fanno restare in panchina. Il punto è che non ci sono.

Ma a forza di non esserci, finisce che sono gli altri a decidere per te. Finisce che vieni trattato come non dovresti, e nemmeno te ne accorgi. E chi non è giovane, e ha modo di parlare, comincia a trattarti con quel sentimento ipocrita che è il giovanilismo. Adottando un’accanita e imprecisata difesa dei «giovani in quanto giovani».

Perché sono loro le vittime. Sono loro gli indifesi. Come si fa con le razze protette. Con le razze in via di estinzione. È un sentimento basso, di compatimento, che si compiace della debolezza altrui. Echi lo prova è il primo a non aver fiducia nei giovani, a non volersi mettere in gioco, ad evitare lo scontro, per non essere messo da parte.

Ma come? Non è assurdo che l’idea di debolezza venga ormai associata in qualche modo ai giovani? Non erano loro a ispirare le opere di poeti e artisti, simboleggiando la forza, la vitalità, il coraggio? Non erano loro a incarnare il concetto di libertà, di aspirazione verso qualcosa di più alto? A voler cambiare il mondo, anche senza mezzi, anche senza soldi, solo con la forza delle loro idee? Perché non si sentono le voci dei giovani? Dove sono finiti i giovani?

La verità è che i giovani ci sono. Solo che sono altrove. Non si fanno vedere. A volte si lamentano. A volte se ne vanno dall’Italia per cercarsi un futuro. Altre volte si indignano ed escono in piazza a protestare. Oppure rimangono in casa a twittare, chattare, alla ricerca di una comunità che fuori non trovano più.

A volte, invece, scelgono di partecipare a un festival. E magari attraversano tutta l’Italia in treno, per farlo. Oppure lavorano mesi, chiusi nelle sale prove con le loro chitarre di seconda mano, o nei garage a dipingere, o nelle camere da letto a scrivere o a leggere a voce alta davanti allo specchio. Tutto per prepararsi a partecipare a un festival di letteratura e musica che (nessuno capisce come mai) ha deciso di sceglierli e di ospitarli, di coinvolgerli nell’organizzazione per suonare, recitare, creare opere d’arte. Per alcuni può essere il primo viaggio della loro vita (come è stato per i ragazzi di Scampia, ospiti di Collisioni). Per altri invece è più facile. Eppure fanno di tutto per esserci, pur di sentirsi parte di un gruppo, pur di dare un contributo nella creazione di un evento culturale.

Ed è questa, credo, la cultura reale. Il campo reale dove i giovani si giocano le loro partite, lontano da tutti. Lo spazio vivo in cui si muovono, corrono, lavorano, si incontrano, parlano, creano una comunità vera, non virtuale. Non lo fanno sui giornali o nei dibattiti in televisione. Lo fanno dove possono. E per farlo, sono disposti ad accettare tanti sacrifici. A correre avanti e indietro per le strade di Barolo. A dormire magari in tenda accampati nelle vigne. Ad arrivare alla sera stanchi, sudati, ma sempre con il sorriso sulle labbra.

E nei mesi di preparazione del Festival, così come durante i tre giorni in collina, hanno negli occhi una luce diversa, indefinibile. Un’emozione a fior di pelle, per il fatto di essere lì, insieme. Una consapevolezza nascosta di far parte di un progetto, e per una volta di non restare seduti in panchina, anche se la partita in questione è un piccolo festival, insomma, una semplice amichevole, tanto per allenarsi un po’.

Quella stessa emozione attraversa tutti noi, gli organizzatori, i volontari, il pubblico, gli ospiti di Collisioni che parlano su palchi e che dedicano proprio ai giovani le loro parole. Come Patti Smith, quando a un certo punto si è alzata in piedi e ha recitato i versi dalla sua canzone People have the power: «Noi abbiamo il potere di sognare, di decidere, di lottare. Perché quello che sogniamo ci può unire. E uniti possiamo cambiare il mondo. Questo è il nostro potere. Affido il mio sogno a voi».

In quel momento, anche se solo per un attimo, la parola “giovani” ha smesso di esistere, per confondersi con tutte le altre parole. In quel momento, per un attimo, eravamo tutti giovani.

Paola Eusebio

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