Millecinquecento caratteri: il tesoro del tipografo Casarico

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Il tipografo Oreste Bruno al lavoro.

DOGLIANI La tipografia Casarico di Oreste Bruno è un luogo dove il tempo sembra essersi fermato. La bottega è in via Rovere lungo il torrente Rea: qui, negli anni Settanta, l’attuale titolare, nipote del fondatore, ha portato le macchine trasferite dalla vecchia sede in piazza Umberto I, dove tutto nacque e ora c’è una cartoleria.

L’atmosfera che si respira è quella spazzata via dall’avvento del digitale. «Siamo pochi, in Piemonte, a comporre ancora i testi usando i caratteri mobili. La nostra Regione è sempre stata terra di stampatori e tipografi: uno dei tipi più famosi al mondo, infatti, è il Bodoni, dal nome di un tipografo saluzzese del Settecento». Il patrimonio della Casarico è costituito, ancora oggi, dai quasi 1.500 caratteri posseduti. I più piccoli sono in piombo, metallo pesante ma malleabile, quelli più grandi in legno di pero.

I documenti in possesso del titolare datano al 1866 la fondazione dell’attività, da parte di Ottino: due erano le sedi, una a Dogliani, l’altra a Carrù. Continua Bruno: «Quest’ultima venne rilevata da un dipendente, che cambiò il nome nell’attuale Olocco. Molte stamperie della zona ebbero Ottino come fondatore: era un girovago della stampa. Aprì a Bra un’officina poi comprata da Grosso e fondò altre stamperie a Cherasco (divenuta poi la tipografia Avagnina), Bene Vagienna (acquistata da Vissjo), Dogliani e Carrù (le sedi di Casarico), Ceva (in seguito Odello), Garessio (rilevata da Gazzano). Da lì raggiunse la Liguria e poi se ne persero le tracce».

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Il tipografo Oreste Bruno al lavoro.

Negli anni, la Casarico impresse testi, fascicoli e bollettini, commissionati da Comuni e parrocchie. In parallelo funzionò anche come casa editrice, con un catalogo di un centinaio di volumi, per lo più di carattere religioso. Una ventina di questi sono legati alla storia e alle tradizioni locali. Alcuni anni fa, Bruno ha ristampato anastaticamente Memorie storiche di Dogliani, edito nel 1888 e scritto dal delegato scolastico Giacinto Gabutti.

Vi si legge, fra l’altro, delle scosse del terremoto che sconvolse il Ponente ligure il 23 febbraio 1887: Dogliani non subì danni ma raccolse «cinquecento lire e 30 ettolitri di vino, spediti al Prefetto di Porto Maurizio». Fra i maggiori successi della tipografia c’è però un altro titolo: si tratta di Esilio indomito, ristampa avviata nel 1925 de La scintilla, giornale edito dai prigionieri italiani nel campo di Sigmundsherberg, in Austria, fra il 1916 e il 1918.

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La Scintilla del 4 novembre 1917.

Felice Casarico, che rilevò la bottega da Ottino, ebbe due figli maschi, Paolo e Giovanni: quest’ultimo, nato nel 1892, combatté nella Prima guerra mondiale e fu fatto prigioniero dagli austriaci. Fu condotto a Sigmundsherberg, importante nodo ferroviario dell’Impero austroungarico, tomba per quasi 2.400 soldati.

Nel campo era concesso, agli internati, di redigere giornali: La scintilla fu l’unico a venir stampato, le altre testate erano scritte a mano. Del compito si occupò, assieme a Silvio Cambi di Firenze, il tipografo Giovanni Casarico. Pur trattando diversi argomenti il foglio era sottoposto alla censura austriaca: sul numero 13 del 17 marzo 1918 venne estromessa la notizia, che a causa della fame, nelle «buche degli avanzi, un gruppetto di prigionieri cenciosi ha adocchiato il più lurido dei becchimi, nella ricerca di qualche cosa da avvicinare alla bocca».

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L’attuale sede dell’attività.

Stampato in due o quattro fogli, le uscite erano settimanali. I ricavi andavano in beneficenza per le opere a favore degli italiani del campo e i prezzi erano espressi in corone austroungariche. Il primo numero è del 4 novembre 1917, mentre l’ultimo, il ventisettesimo, risale al 18 agosto 1918. Vi trovavano spazio articoli propriamente patriottici, a firma di Vincenzo Fida, ma anche inserti pubblicitari, oltre alla rubrica La parola del medico, che il 2 giugno 1918 parla, fra l’altro, delle malattie veneree contratte dai prigionieri.

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La redazione del giornale.

Si trovano, fra gli altri, anche gli elenchi dei “vaglia dispersi”, pacchi inviati dall’Italia e mai giunti a destinazione. A Dogliani, intanto, la tipografia Casarico stampava le cartoline della Croce rossa con i nomi dei prigionieri, molti dei quali del paese. Oreste Bruno ne conserva un raccoglitore, con le missive di Giovanni, che chiedeva al padre Felice e alla madre Tilde l’invio di tabacco: morì nel 1934.

Durante la Seconda guerra mondiale il padre, Felice Casarico, stampò, oltre al materiale per la Repubblica sociale italiana, anche importanti periodici partigiani, come Stella tricolore e Lungo il Tanaro. Spiega Bruno: «Imprimevano i bollettini dei partigiani e poi distruggevano tutto, per cercare di non farsi scoprire: dai caratteri utilizzati si risaliva alla tipografia. Casarico era in buoni rapporti con il podestà, che lo avvertiva delle retate: cercava di non inimicarsi nessuno per poter lavorare».

I nazifascisti arrivarono nel febbraio del 1945. «Non distrussero i macchinari, ma rovesciarono per terra le scatole contenenti i caratteri, mescolandoli. Essendo migliaia ci vollero mesi per rimetterli a posto, bloccando l’attività». Nato nel 1865, Felice Casarico morì nel 1951, lasciando la tipografia in eredità al figlio Paolo. Oreste, l’attuale titolare, è un nipote della moglie di questi e ne porta avanti la storia.
«Anni fa venivano scolaresche in visita. Non mi dispiacerebbe se la bottega di Casarico diventasse una sorta di museo», conclude.

Davide Barile

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