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A lezione con Ugo Alciati: protagonisti gli agnolotti del plin

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ALBA Tradizione, storia, recupero: sono queste le parole racchiuse in un agnolotto al plin. Ugo Alciati, di Guido ristorante a Fontanafredda, ci ha accompagnati domenica 15 ottobre alla scoperta del piatto simbolo del suo ristorante.

Una cooking class immersiva per raccontare passo passo la realizzazione e la storia di un piatto che racconta la vita nelle colline di Langa. Un piatto povero, che nasce nelle case delle cuoche del paese. 

«Ogni donna aveva una sua ricetta: chi metteva il riso, chi il cavolo, chi solamente carne e verdura. Il ripieno variava in base alla disponibilità dei prodotti, e agli avanzi della settimana», racconta Ugo.

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«Mia nonna Lidia, già nel 1960, aveva la sua ricetta degli agnolotti al plin, creata a sua immagine e somiglianza. Come tutti a quell’epoca, non lavorava in un ristorante ma, insieme alle altre cuoche del paese, cucinava per le occasioni più importanti. Il raviolo è un piatto di assoluto recupero: il punto di svolta è stato reinventarlo e dargli un valore». 

È così che un piatto povero, realizzato con i resti della settimana, si arricchisce di valore e diventa il piatto simbolo del pranzo della domenica, il pasto più importante in assoluto.

Una tradizione antica, ma che racchiude in sé un pensiero moderno: riutilizzare gli scarti assume un valore intrinseco, diventa un modo di valorizzare i contadini, la terra e i suoi frutti. Ma il vero segreto per realizzare il plin perfetto è il tempo. Quel tempo che a volte manca e che Ugo ci invita a ritrovare. 

«Non è una ricetta particolarmente difficile, ma richiede molto tempo. Quindi, se volete creare l’agnolotto al plin perfetto, mettete pure in conto di lavorare per due giorni. Le carni, infatti, devono cuocere lentamente in forno per sprigionare tutti gli aromi e per rilasciare quei succhi che, sempre in ottica di circolarità delle preparazioni, verranno poi utilizzati per preparare il sugo per condire i ravioli».

Continua Alciati: «Le verdure, invece, dovranno essere brasate a fuoco lento in pentola. Quali carni? Quali verdure? La scelta spetta voi. Dipende molto dai vostri gusti ma, soprattutto, da quello che avete avanzato durante la settimana. Mia nonna non usava coniglio, e così faccio io ancora oggi: solo vitello e maiale. Invece del cavolo, l’insalata scarola, che ha un sapore più dolce e delicato». 

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Dalle mani esperte di Ugo si riesce a cogliere l’esperienza maturata negli anni. Ogni gesto ha un significato, ogni movimento uno scopo ben preciso. È così che la carne, una volta fredda, viene tritata grossolanamente per ricreare la consistenza perfetta. Che la pasta viene tirata al giusto spessore: non troppo sottile, ma neanche troppo spessa. Che il ripieno viene calibrato attentamente, per garantire un perfetto equilibrio.

«Per realizzare un agnolotto ad opera d’arte bisogna seguire alcuni piccoli trucchetti. Come prima cosa, è fondamentale la giusta consistenza del ripieno: non troppo umido, non troppo asciutto. La pasta, poi, deve essere realizzata con la giusta proporzione tra albumi e tuorli, e l’aggiunta di una piccola quantità di olio. Solo in questo caso, aggiungo un pizzico di sale nell’impasto: non tanto per il gusto, ma per la sua azione idroscopica, che ci permette di lavorarla evitando che si asciughi eccessivamente».

Poi prosegue: «Inoltre, è fondamentale la fase di chiusura. Questa è la parte più critica: una chiusura sbagliata potrebbe far aprire i ravioli in cottura, rovinando il risultato finale. Dopo aver ripiegato la pasta, bisogna iniziare a pizzicare i ravioli in modo deciso (da qui, il nome plin, letteralmente pizzicotto), cercando di far uscire completamente l’aria e lavorando con due mani. In questo modo, si ripassa due volte nello stesso punto, sigillando bene il plin. Infine, bisogna cuocerli in tempi brevi, o abbatterli immediatamente, per evitare che il ripieno renda eccessivamente umida la pasta».  

Ma la cosa che più si discosta dalla tradizione, è la dimensione dell’agnolotto al plin. Al Ristorante da Guido hanno invertito totalmente la proporzione tra pasta e ripieno, triplicandone la grandezza.

Ogni morso è un’esplosione: prima la delicatezza della scarola, poi l’aromaticità delle carni, infine, il retrogusto delicato del pepe e degli aromi. Il fondo bruno mantecato con il burro avvolge totalmente il morso, donando spessore gustativo e aromaticità. In ogni raviolo è racchiusa una storia, e si sente. 

 

L’analisi del tartufo insieme a Stefano Cometti

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Accompagnati da Stefano Cometti, veterinario, trifolao e giudice addestrato, abbiamo imparato come valutare dal punto di vista sensoriale il tartufo per identificarne peculiarità ed eventuali difetti.

Il tartufo è un fungo ipogeo o sotterraneo che appartiene alla famiglia degli ascomiceti. Vive in simbiosi con la pianta che lo ospita: rovere, pioppo, tiglio o nocciolo sono solo alcuni degli habitat ideali per la sua crescita. A differenza del fungo, le cui spore, necessarie alla propagazione e duplicazione, vengono rilasciate nell’ambiente al momento della maturazione, il tartufo deve avvalersi dell’aiuto di piccoli animali come roditori, lombrichi, lumache o cinghiali, che ne sono attratti dall’odore.

È proprio il peculiare profumo che, in fase di vendita, viene usato per la valutazione e la classificazione: per questo motivo l’analisi sensoriale diventa uno strumento fondamentale. Il Centro Studi, negli anni, ha identificato una procedura dettagliata e formato un centinaio di giudici alla valutazione sensoriale del tartufo bianco d’Alba.

Tre dei nostri cinque sensi devono essere coinvolti: vista, tatto e olfatto. Grazie a questo metodo si riescono a identificare quei prodotti non adatti alla vendita, perché caratterizzati da una mancata integrità, da uno scarso grado di pulizia o da odori anomali.

 

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Per valutare un tartufo, quindi, è necessario partire dall’aspetto visivo: un tartufo per essere considerato di buona qualità deve essere perfettamente integro, con la superficie regolare e privo di ogni residuo di terra o detriti, che potrebbero nascondere difetti e imperfezioni. Con il tatto, invece, è possibile valutarne la consistenza: esso deve presentare un buon equilibrio tra durezza ed elasticità, ed essere turgido e compatto.

Infine, fondamentale è la valutazione olfattiva: a caratterizzare il tartufo bianco d’Alba, infatti, sono i sentori di aglio fresco, poi miele e, solo sul finale, una leggera nota di fungo. Da escludere, invece, quei tartufi che presentano un’eccessiva intensità olfattiva che tende ad odori sgradevoli (formaggio, crosta, fungo secco o marcio, terra bagnata, ammoniaca o calzino bagnato)

Chiara Nervo

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