Lionello Puppi (Professore emerito di metodologia di Storia dell’arte, Università Cà Foscari, Venezia.)
La cronologia.
Il dipinto – destinato all’altare dei Massolo, antica stirpe patrizia veneziana, secondo a destra nella chiesa di Santa Maria dei Crociferi (o Gesuati) – doveva esser già al lavoro sul finir del 1548, se, il 18 novembre, Lorenzo, ultimo discendente della famiglia, nel testamento, poteva ordinare che “la palla del qual altar […] si abbia a finir”. È probabile che l’incarico a Tiziano d’eseguirla risalisse a momento precedente il suo lungo soggiorno ad Augusta e, dunque, ad un mese imprecisabile del 1547 e che, nell’autunno dell’anno dopo, il dipinto fosse stato solo impostato. L’esecuzione fu, comunque, di tempi lunghi e assai sofferta, anche se dei saggi grafici di prova ci resta solo un foglio, oggi nel Gabinetto dei disegni e stampe degli Uffizi a Firenze (inv. 12907 F) con uno studio delle gambe del carnefice a destra della graticola su cui è disteso il Martire. Allorché il 25 gennaio 1557, Lorenzo Massolo perdeva la vita, l’opera non era ancora terminata, (posto che la vedova, Elisabetta Querini, nel suo ultimo testamento, dettato il 15 marzo di quell’anno, stabiliva che se, al momento della sua morte, “l’arca et pala di Crosecchieri (Crociferi) non sarà finita, (l’esecutore) la facci finir con quella più prestezza serà possibile”. In realtà, è probabile che la pala fosse pronta poco dopo, visto che il 9 ottobre 1564, il segretario dell’ambasciatore di Filippo II, a Venezia, García Hernandez, poteva segnalare ad Antonio Perez, segretario del re, che “in un monastero della città (Venezia) è un quadro di San Lorenzo che (Tiziano) fece molti anni addietro”.
La committenza.
Committente della pala – così come dell’altare destinato ad ospitarla – è apparentemente, e come s’è visto, Lorenzo Massolo, il cui santo eponimo vi è celebrato nel momento supremo del suo sacrificio, ma è molto probabile che, a rivolgersi a Tiziano sia stata la consorte, Elisabetta Querini, sposata poco prima del 1512 e dalla quale il Massolo aveva avuto sei anni dopo un figlio, Pietro, che, ad espiazione dell’inesplicabile assassinio della moglie, Chiara Tiepolo, bandito dai territori della Serenissima riparerà nel monastero di San Benedetto Po e verrà ammesso in quell’Ordine, professando i voti solenni e mutando il suo nome – significativamente – in quello di Lorenzo, non tanto a richiamo del padre, quanto a evocazione della passio di quel Santo. Elisabetta Querini, infatti, fu (come la ricorda lo scrittore secentesco Giovanni Palazzi), “dama singolare per la perspicacia dell’ingegno e sottigliezza del suo sapere”, così da essere “annoverata tra le illustri di quel secolo per la cognizioni di belle lettere latine e volgari, per la grandezza d’animo e bellezza di corpo”. Nipote di Girolamo Querini, amico e confidente di Pietro Bembo, fu oggetto dell’ammirazione e della devozione di quest’ultimo che le dedicò sei sonetti, esaltanti la “donna, cui nulla è par bella, né saggia”. Suscitò l’amore di monsignor Giovanni Della Casa, giunto a Venezia sul finir del 1544 come legato pontificio, che, alla sua volta, le indirizzò componimenti poetici. E, ciò che a noi qui sovratutto interessa, fu ritratta due volte da Tiziano, la prima in un dipinto a lei stessa destinato (ma Elisabetta lo donerà all’amico del Bembo, Carlo Gualteruzzi) e la seconda in uno per monsignor Della Casa: a prova di una confidenza tra il pittore e la gentildonna che autorizza – insieme ad un segnale leggibile all’interno della grande pala; e spettante al suo significato (come vedremo più avanti) – l’attribuzione alla gentildonna di un ruolo preponderante nella commissione del “Martirio di San Lorenzo”. Al tempo stesso, spiace che i ritratti tizianeschi siano andati perduti, sebbene del secondo restino copie pittoriche presso il Louvre di Parigi e la Galleria Borghese di Roma, e una a stampa intagliata da Giuseppe Canale verso la prima metà del Settecento, quando l’originale si trovava a Roma presso gli Eredi dei Dalla Casa: mentre delle fattezze di Elisabetta è ulteriore testimonianza in una medaglia, attribuita a Danese Cattaneo – un altro esponente del milieu gravitante su Tiziano –; che, sul recto, la riprende in profilo entro l’iscrizione “ELISABETTAE QUIRINAE”, mentre sul verso rappresenta le “Tre Grazie”.
Il significato artistico e iconografico.
Rammenta Carlo Ridolfi, nella biografia di Tiziano pubblicata nelle sue “Maraviglie dell’Arte” (1648), che il Maestro “era solito a tener le pitture a lungo in casa, ricoprendole come lavorato vi haveva, e dopo qualche tempo quelle rivedendo, le riduceva in più volte a perfettione”. Se non stupisce, pertanto, che il “Martirio di San Lorenzo” sia stato portato a termine in un decennio, è da far caso come esso includa l’impressione profonda suscitata dall’esperienza del patrimonio archeologico durante il soggiorno romano del 1545- 1546 (“vado imparando – scriveva l’8 dicembre 1545 a Carlo V – da questi meravigliosi sassi antichi cose per le quali l’arte mia divenghi degna di dipingere…”) e il presagio delle allucinazioni cromatiche dell’ultimo periodo. Al primo riguardo, valga, con la citazione del “Galata caduto” che da tempo poteva aver ammirato nelle collezioni veneziane del cardinal Domenico Grimani, l’evocazione, nella quinta colonnata sulla destra, del prospetto del tempio di Adriano in Piazza di Pietra o di quello del tempio di Antonino e Faustina nel Foro romano, inglobato nella facciata della chiesa di San Lorenzo in Miranda (due reperti rilevati spesso anche dagli architetti del Rinascimento, tra i quali Palladio). Al secondo riguardo, si constati la prossimità dell’”effetto magico” del dinamismo cromatico, che incantava il Burckhardt, o dei vortici di luce e d’ombra, che entusiasmavano il Taine, alle alchimie dei capolavori realizzati a partir dagli anni Sessanta. Ma la rappresentazione tizianesca, nel momento in cui si fonda sulla “Passio Sancti Laurentii” di Prudenzio e ne coglie la rivendicazione al martirio del Santo del passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo (“Mors illa Sancti Martyris/Mors vera temporum fuit”), include anche un omaggio all’effettiva committente, Elisabetta Querini Massolo. Giustamente, infatti, nella statuetta che regge in mano la figura velata sulla sinistra (la statua di Vesta, espressamente convocata dal racconto di Prudenzio, come della “dea meno compromessa dell’Olimpo pagano” e “tutrice delle virtù famigliari”), è stato riconosciuto il “geroglifico della Virtù inventato” proprio da Elisabetta in quanto sua incarnazione “che fulmini sprezza, oscurità non teme” e fu, sempre da lei stessa, immaginato nella forma della “Victoria” presente in alcune monete coniate dall’imperatore Galba, dalla cui “Gens Galbata” i Querini pretendevano di discendere.
La fortuna.
Il 31 agosto 1564, Filippo II chiedeva a Garcìa Hernandez, segretario di Francisco de Vargas, suo ambasciatore di Venezia, di informarsi se Tiziano era nella condizione di lavorare, perché avrebbe desiderato che gli “facesse una imagine di San Lorenzo”. E si tenga presente, al riguardo, che il sovrano, il 21 aprile dell’anno prima, aveva posto la prima pietra del Monastero dell’Escorial, consacrato precisamente a quel santo, non solo perché, nel giorno della sua festività, il 10 agosto 1557, Filippo II aveva conseguito la vittoria di San Quintino sull’esercito francese, ma per esser stato Lorenzo “clarissimus atleta fidei” e tra i primi martiri spagnoli in difesa della fede cristiana. Frattanto, nel momento in cui la disponibilità di Tiziano vien accertata, Garcìa Hernandez segnala al segretario del re, Gonzalo Perez, l’esistenza della grande pala del “glorioso Sant Laurencio” nella chiesa dei Crociferi, e la possibilità di farla copiare da un abilissimo collaboratore del Vecellio, Girolamo Dente. Filippo II è, però, determinato: sia Tiziano stesso ad eseguire la replica, e il Maestro si mette al lavoro. Nel maggio del 1566, il Vasari segnala, nello studio al Biri Grande, tra le tele “abbozzate e cominciate”, il “Martirio di San Lorenzo, simile a quello nella chiesa dei Crociferi il quale (Tiziano) disegna mandare al Re cattolico”: nel dicembre dell’anno dopo l’opera, terminata, vien inviata al suo regale committente, ed entro l’aprile del 1574 sarà collocata al centro del “gran retablo” della “Iglesia viejia” escurialense a San Lorenzo intitolata, dal quale – salvo lo spostamento a Madrid tra 1809 e 1814 durante il regno di Giuseppe Bonaparte – non sarà più rimossa. Rispetto alla prima redazione, l’opera varia, non solo le dimensioni (440 x 320 cm contro 500 x 280 cm) e l’espressione della firma (TITIANUS F. anziché TITIANUS VECELIUS AEQUES F.), ma anche l’impianto della parte medio alta, dove scompare la quinta colonnata per l’introduzione di un grande arcone e di due angioletti in volo. Di codesta redazione effettuò una parziale riproduzione a stampa in controparte l’incisore olandese Cornelis Cort, datandola 1571 (ma nel 1567 era già delineata) e dedicandola, su iscrizione nel piedistallo della figura velata, “invictissimo Philippo/Hispaniarum Regi”, con il richiamo, sulla graticola, a “Titianus Inven./Aeques Caes.” Una riproduzione pittorica dell’incisione si trova al Prado (tela, 144 x 36 cm), mentre copie del “Martirio” – ma non è chiaro se dalla versione veneziana o dalla replica spagnola, e oggi irreperibili – risultano registrate presso gli eredi di Carlo Maratta nel 1722 con una attribuzione allo Scarsellino e nell’inventario del patrimonio, 1647, di Juan Alfonso Enriquez de Cabrera, ammiraglio di Castiglia.
Il destino.
Collocata – come s’è visto – nel secondo altare a destra della chiesa dei Crociferi ch’era stata rifabbricata nel 1515, la pala del “Martirio di San Lorenzo” vi rimase sino alla soppressione di quell’Ordine nel 1656 da parte di papa Alessandro VII, che ne donava i beni alla Serenissima: il cui Governo vendeva il monastero alla Compagnia di Gesù la quale vi insediava la Casa professa della Provincia di Venezia, provvedendo, tra 1715 e 1730, a rifabbricare la Chiesa dalle fondamenta. Nel tempio rinnovato, la pala fu collocata sull’altare della prima cappella a sinistra dedicata a San Lorenzo e assegnata alla famiglia Pezzana: e là rimase sino ad oggi – e, dunque, anche al di là della soprressione nel 1773, da parte di papa Clemente XIV, dell’Ordine dei Gesuiti, restando, ciononostante, la Chiesa officiata –, ad eccezione degli anni dal 1797 al 1815, allorché, su decreto napoleonico, fu trasportata a Parigi. Sappiamo che, nell’occasione, venne sottoposta ad un discutibile restauro, che faceva seguito a quello, ordinato dalla Serenissima e condotto dal pittore Pietro Cardinali per tentar di ovviare ai danni che il dipinto aveva patito, quando ancor si trovava nella vecchia Chiesa dei Crociferi, a causa delle esalazioni fetide provenienti da “alcune sepolture che dianzi si cavarono” (Ridolfi, 1648). Né il dipinto trasse giovamento (patì, anzi ulteriori sofferenze) dai restauri effettuati, a spese del Governo austriaco, tra 1834-1835 e 1842, dal pittore Sebastiano Santi; dalla rifoderatura eseguita nel 1877; dalla pulitura in vista della grande Mostra tizianesca del 1935: mentre solo in parte ovviava al degrado del capolavoro l’intervento realizzato nel 1981.