Il Dolcetto meriterebbe più rispetto e impegno

Uva dolcetto
Vendemmia di dolcetto

DOGLIANI Ha avuto luogo a Dogliani un convegno che ha coinvolto tecnici, produttori e ristoratori sulle tematiche del Dolcetto come vitigno e come vino, che in tale realtà veste i panni del Dogliani Docg.

Si è trattato di un confronto stimolante che avrebbe potuto svolgersi anche in altre aree dove questo vitigno riveste una concreta importanza (Alba, Diano d’Alba, Ovada, ecc.). Interessanti sono state le sollecitazioni tecniche e di mercato proposte dai due relatori, l’agronomo Matteo Monchiero e il sommelier Andrea Dani.

Tra le considerazioni, alcune erano alquanto note, altre invece erano nuove, a conferma di una realtà varietale, territoriale, produttiva e merceologica che meriterebbe una maggiore attenzione da parte del mercato e dei suoi interpreti e, in ultima analisi, da parte del variegato mondo dei consumatori.

Fattori positivi…

Già le considerazioni relative all’origine del Dolcetto come vitigno meritano rispetto: tutto sembra far pensare che derivi dall’incrocio tra due varietà oggi scomparse (il Moissan e il Dolcetto bianco) e il luogo di questo sposalizio sembra proprio essere stata l’area del Dogliani o comunque le Langhe più in generale: ciò sottolinea il valore di questo vitigno come fattore di biodiversità.

Ma c’è altro: nelle sue scelte territoriali, il Dolcetto è un vitigno selettivo, che discrimina e dà la preferenza ai posti dove davvero si trova bene. È lento nel germogliamento e questo gli evita le gelate tardive. Il tempo che perde nella prima fase dell’anno lo recupera e così è il primo a invaiare e matura altrettanto presto. Inoltre, è un buon accumulatore di zuccheri (non come la Barbera che sotto questo punto di vista è persino esagerata).

Anche il vino dispone di molti elementi positivi: la grande ricchezza cromatica e la componente olfattiva ispirata al floreale e fruttato, senza trascurare lo speziato. Propone un notevole patrimonio fenolico e anche la struttura tannica è di rilievo. Intrigante è il finale ammandorlato, un vero stimolo alla beva. Globalmente, racconta un complesso organolettico decisamente armonico. Anzi, è proprio l’equilibrio il suo carattere più spiccato.

…E aspetti critici

Come per ogni vitigno, non tutto ciò che luccica è oro e, così, presenta anche degli aspetti problematici come l’impegno che richiede nella lavorazione sia in vigna che in cantina. Anche il livello acido può segnalare qualche lacuna, soprattutto nelle produzioni ad altitudini più basse. Ma sono molti di più gli aspetti positivi di quelli critici. Allora, viene da chiedersi come mai negli ultimi quarant’anni il Dolcetto, senza distinzione di denominazione, abbia trovato nel mercato più critiche che soddisfazioni.

È un po’ riduttivo dare la colpa a quel suo nome, che appare contradditorio. E la colpa non è nemmeno di un consumatore che sembra non capirlo. Molte delle colpe vanno divise tra la produzione e il mercato: entrambi non hanno saputo valorizzarne i caratteri positivi.

Già il fatto che il Dolcetto sia spesso posizionato tra i vini di basso prezzo è un segnale. Nella realtà la situazione è ben diversa, a cominciare dai costi di produzione, tutt’altro che bassi.

Molti tra i produttori e gli operatori di mercato si sono arresi troppo presto di fronte alle difficoltà riscontrate nel dialogo con l’interlocutore (e consumatore) finale. È umanamente comprensibile che si preferisca vendere il vino «che si vende da solo», ma la professionalità e l’autorevolezza di chi produce e di chi distribuisce richiederebbero un impegno vero anche nel proporre il vino che ha più necessità di essere spiegato, raccontato, valorizzato.

Attualmente dà un certo fastidio constatare come in tante carte dei vini dei nostri ristoranti ci siano due pagine dedicate al Langhe Nebbiolo e nemmeno una referenza a una delle denominazioni a base di Dolcetto. Significa rinunciare a priori a una biodiversità che meriterebbe molto più rispetto.

Giancarlo Montaldo

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