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Tanaro da salvare. A piedi lungo il fiume: un cimitero di pattume

Pochi chilometri di passeggiata sugli argini albesi del Tanaro raccontano una brutta storia: c’è una gran quantità di rifiuti pericolosi per l’uomo e l’ambiente

TANARO TESORO DA SALVARE Consideriamo il ritmo della camminata: è un movimento che rema controcorrente, costituito da lentezza e fatica, tanto da essere giudicato “sovversivo” in una modernità dedita a divinità come la velocità e la comodità. Eppure, l’incedere lento non solo mette in contatto con il proprio corpo e i propri sensi migliorando l’attenzione, ma favorisce anche il rapporto con l’ambiente.
Per questi e altri motivi a metà dicembre – quando il freddo da neve è sceso sulla città – abbiamo scelto anche questa modalità di studio del fiume. Abbiamo corso seguendo gli argini per un piccolo tratto, circa sei o sette chilometri, lungo il perimetro della città. Così, immersi nel verde delle prode, è possibile conoscere il Tanaro in modo profondo. La passeggiata è garanzia di solitudine, vi assicuriamo. In un’ora e mezza abbiamo incontrato un solo passante, nessun mezzo a motore, nessun rumore che non fosse quello furtivo dei volatili, di qualche animale o dell’acqua. Con l’esperienza in solitaria, corredata dalle immagini che pubblichiamo, volevamo verificare il grado di contaminazione umana in luoghi in cui la natura dovrebbe agire indisturbata. Quanto abbiamo amaramente scoperto è sintetizzabile in poche parole: una gran mole di rifiuti.

Tanardo da salvare. A piedi lungo il fiume: un cimitero di pattume 2

Gli avvistamenti di plastica di diverso genere in circa due ore di corsa – inframmezzate da esplorazioni del litorale del fiume, quando è stato possibile staccarsi dal sentiero principale – sfuggono al calcolo. Ma possiamo dire di aver registrato oltre un centinaio di rifiuti in un tratto relativamente breve. Abbiamo però smesso di contare dopo pochi minuti: borse di plastica, piatti, forchette, teli, lattine, taniche, marmitte, perfino un sacco della spazzatura colmo di ogni genere di immondizia, quindi gettato in un cespuglio con accurata premeditazione. La plastica pare essere la principale ospite non gradita, sparsa lungo la spiaggia del Tanaro, i torrenti minori che vi affluiscono, i boschi. Con ogni evidenza le (poche?) persone che frequentano questi luoghi attuano una lucida determinazione: infierire sull’ambiente, lasciandovi tragiche tracce umane.

Tanardo da salvare. A piedi lungo il fiume: un cimitero di pattume 1

Come Gazzetta d’Alba ha documentato insieme a Slow Food e all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo a novembre (in occasione dell’affollato incontro “La plastica che mangiamo”), il materiale non biodegrada. Semplificando molto, si può dire che rimpicciolisce fino a ridursi in infinitesimali frammenti in un tempo quasi infinito. Viene ormai ingerita dagli animali e dai pesci che la scambiano per nutriente naturale e pure assorbita dalle piante. Infine, si raccoglie nei nostri corpi attraverso l’alimentazione, dato che l’uomo si ciba appunto di pesci, verdure, carni. L’assorbimento delle microparticelle può provocare danni non ancora del tutto chiari, anche all’apparato riproduttore. In un recente quanto drammatico studio la plastica è stata trovata nel 100 per cento delle feci del campione umano analizzato: un risultato che lascia pochi dubbi sull’entità del dramma in corso.

Tanaro, tesoro da salvare

Come sappiamo, nell’Oceano Pacifico, tra le Hawaii e la California, esiste già un enorme accumulo dei nostri detriti plastici, un’isola con una superficie tre volte più grande della Francia, denominata la Great pacific garbage patch, composta per il 99,9 per cento da frammenti di plastica galleggiante per un totale di circa 80mila tonnellate. Ma, ci siamo chiesti, oltre a inquinare il pianeta, gli involucri e i sacchetti che imperano nei supermercati, quanto contaminano i cibi che avvolgono?

Tanardo da salvare. A piedi lungo il fiume: un cimitero di pattume

Matteo Viberti

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