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Con Paolo Tibaldi scopriamo le origini del termine piemontese “Arzigh”

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ABITARE IL PIEMONTESE

Arzigh: Azzardo, rischio

Se fino ad ora abbiamo provato a cercare le etimologie di alcune parole piemontesi e siamo andati a parare un nel latino, nell’arabo o nel greco, oggi, con una sola parola raggiungiamo tutte e tre le provenienze. Parliamo infatti di un lemma utilizzato in momenti delicati della vita.

Arzigh è una parola che rimane sospesa; anche fisiologicamente pare che, pronunciandola, l’individuo pare subisca una tirata di briglie a significare la pericolosità di ciò che si ha il coraggio di azzardare. Arzigh significa proprio questo. Il verbo associato è arzighé, correre il pericolo, mentre l’aggettivo ‘rischioso’ lo diciamo con la parola arzigos. Poi, a seconda delle zone, troviamo la variante resighé, asaré, asarà…ma sempre di azzardo si tratta.

Vengo a conoscenza delle origini consultando il Repertorio Etimologico Piemontese. Dal latino volgare, RESECUM indica una roccia scoscesa, uno scoglio; indi per cui la parola è un termine marinaresco legato al rischio costituito dagli scogli per le navi cariche di merci. Passando al greco, la parola RYSIS significa salvezza, mentre nel greco bizantino con Rhizikòn si intende sorte, destino. Terminando con l’arabo, la parola RIZQ significa dono del cielo, sorte, destino.

Chi di noi non ha mai rischiato? E chi invece avrebbe voluto ma è mancato coraggio o la possibilità? Un’esclamazione di chi necessita l’indipendenza è questa: son stofi ‘d vive ‘nt ȓa cotonin-a; veuj arzighé a fé còsa ch’im pias! (sono stanco di vivere nella protezione; voglio rischiare di fare ciò che mi piace!).

Un episodio che mi ha sempre fatto sorridere riguarda un fornaio, che non voleva appunto rischiare: il lavoro cresceva di giorno in giorno e costui decise di assumere un garzone, un ragazzo volenteroso che continuasse a far cuocere pane, focacce e biscotti, mentre il proprietario smaltiva la clientela. La paura di questo fornaio era rappresentata dal rischio che il garzone si mangiasse il ben di Dio che usciva dal forno. E così chiedeva gentilmente al ragazzo nel retrobottega: fame el piasì, mentre ch’et tȓavaj-i, fa mach che sibié! (fammi il piacere, mentre lavori fischietta!). In quel modo il fornaio, udendo le melodie, si sentiva tranquillo. A fine giornata il ragazzo giurava di essere più stanco di fischiare che di lavorare.

Paolo Tibaldi

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