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Pochi investimenti in Italia sulla micorriza

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INTERVISTA Si parla spesso di un legame magico tra il tartufo e la pianta. La scienza ci insegna però che tale legame è una simbiosi e si chiama micorriza, indispensabile per la crescita e la sopravvivenza del tartufo. Abbiamo rivolto alcune domande sul tema a Giovanni Pacioni, micologo dell’Università dell’Aquila.

Chi individuò per primo le micorrize?

«Fu, nel 1885, il ricercatore tedesco Albert Bernard Frank, che a livello accademico ricevette una terribile reprimenda, ma già nel 1879 l’italiano Gibelli aveva descritto il fenomeno, considerandolo però una patologia».

Quanti tipi di micorriza esistono?

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Il professor Giovanni Pacioni, docente all’Università dell’Aquila

«Fondamentalmente due: un mantello fungino che riveste gli apici radicali senza penetrare le cellule, detto ectomicorriza, che quando penetra le cellule delle radici prende il nome di endomicorriza. Le uniche in grado di formare corpi fruttiferi sono le ectomicorrize. Ciò va specificato perché il tartufo può sviluppare endomicorrize e altro in diverse piante. Non esiste pianta non micorrizata dai tartufi nelle diverse maniere. Il rapporto è regolato da ormoni: a volte è la pianta a decidere che tipo di micorriza fare, altre il fungo. Noi lo abbiamo dimostrato sperimentalmente in laboratorio. La micorriza di Tuber magnatum fu studiata e definita sia dall’Università di Torino con l’Aquila sia dall’Università di Perugia con il Cnr oltre vent’anni fa».

Quando si è iniziato a tentare di micorrizare le piante?

«Le prime micorrizazioni con tartufo ad aver ottenuto successo furono condotte negli anni Sessanta. Per il Tuber, tutto è più difficile perché ogni esemplare contiene miliardi di batteri e milioni di funghi. In laboratorio, quindi, è difficile ottenerne una coltura pura. Anna Fontana, insieme ad altri ricercatori, ha ideato un metodo molto semplice: si mettono a contatto, su terreno sterile, una sospensione sporale di tartufi omogeneizzati con radici di piante cresciute in ambienti sterili. Il tartufo, così facendo, non ha competitori e in due o tre mesi la pianta sarà completamente micorrizata. Io e i miei collaboratori prendiamo tartufi bianchi da 20-30 grammi, sani, integri, puliti e li frulliamo».

Dalla Francia, il gruppo di ricerca di Claude Murat ha reso noto il buon esito della produzione di tartufi bianchi dove non erano naturalmente presenti. E in Italia?

«Da noi il Tuber magnatum si coltiva da almeno trentacinque anni, ma mancano gli investimenti e i conduttori delle tartufaie produttive si guardano bene dal renderlo noto. In Italia i ricercatori che si occupano di micorrize fanno miracoli nell’indifferenza delle istituzioni. Siamo riusciti a produrre impianti tartuficoli produttivi inoculando le piante con il micelio di Tuber borchii ottenuto con coltivazioni in vitro».

Non sarebbe possibile adottare lo stesso procedimento per la coltivazione del Tuber magnatum?

«Per il bianco non conosciamo ancora bene la composizione per il terreno di coltura. In una piastra da dieci centimetri, di uso comune in laboratorio, il Tuber magnatum forma una muffa circolare che cresce di pochi millimetri al mese. Con il Tuber borchii, nello stesso tempo la muffa riempie tutto lo spazio a disposizione. Questa è una difficoltà. Il magnatum si riesce a coltivare in maniera particolare: il procedimento è protetto, ancora per otto anni, da un brevetto del francese François Martin, ovviamente appoggiato dal suo Paese. Anche noi avevamo ottenuto gli stessi risultati, presentando soltanto gli articoli scientifici senza la registrazione brevettuale: la procedura, quindi, la conosciamo perfettamente».

Perché c’è scetticismo sulla coltivazione del bianco?

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Micorriza del Tuber magnatum

«Colpa dei vivaisti scorretti del passato: in maniera conscia o truffaldina, hanno venduto a 300mila lire piante micorrizate con inoculo prodotto da tartufi bianchi di scarsissima qualità, ovvero palline o frammenti. Tantissimi i truffati, ma forse il Piemonte ha subito i maggiori danni da tale pratica».

Di che tipo di lavorazioni necessita una tartufaia?

«Sono contrario a lavorazioni del suolo. Preferisco l’inerbimento, da tenere a bada con trinciature o sfalci senza rimozione della vegetazione tagliata. Lasciando la copertura erbacea si prevengono erosione e perdite d’acqua, incrementando l’attività microbiologica e la sostanza organica. Negli studi condotti sul Tuber melanosporum abbiamo notato che i tartufi formano migliaia di embrioni nel periodo primaverile ed estivo, i quali impiegano molti mesi per maturare. Nel tempo, molti muoiono, altri si sviluppano parzialmente e, alla fine, ne rimangono pochi. In estate tale processo può attraversare fasi critiche, per cui va effettuata l’irrigazione».

 Davide Barile

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